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Dogman

Pubblicato il 18 maggio 2018 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Dogman

Un artista ha i suoi diversi periodi, segnati dalle tappe di un’evoluzione creativa e artistica determinata dall’età che dalla gioventù matura in una fase adulta e, per chi ci arriva, entra in una vecchiaia che può essere più o meno luminosa. Beethoven, ma in un’epoca in cui si viveva molto meno, arrivò fino a 57 anni raggiungendo vette di maturità tali che i biografi divisero in seguito in tre fasi la sua fioritura creativa: il Fanciullo, l’Uomo, il Dio. Ma erano altre epoche. Resta il fatto che l’artista, signore assoluto della propria arte, che campi 20 o 90 anni, rimane il solo ed unico responabile di un linguaggio riconoscibile attribuibile a lui, e a lui soltanto. Matteo Garrone, punta di diamante del nostro cinema, cesellatore in prima persona di una carriera complessa che lo ha portato da vincitore del Sacher Festival di Nanni Moretti a definire la nuova lingua italiana del grande schermo, rappresentandoci degnamente e onorevolmente nelle maggiori rassegne internazionali, segna, con Dogman, una tappa importante e significativa in una carriera marcata da titoli folgoranti, tutti più o meno indimenticabili, sia per chi dedica al cinema attenzioni appassionate e competenti, sia per chi ci va con la fidanzata il sabato sera. Se da sempre si dice che il grande problema del Cinema Italiano è quello di non riuscire a parlare più una lingua riconoscibile ispirata al ‘Paese reale’ (quella lingua che ne costituiva il nerbo nelle grandiose e mai dimenticate epoche del Neorealismo e, poi, della Commedia all’Italiana), va dato atto a Garrone, e ad alcuni suoi colleghi più o meno determinanti nella ricerca di uno ‘Stil Novo’ italiano erede di una tradizione gloriosa e aggiornato alle nuove esigenze dello spettacolo e della percezione di un pubblico berlusconizzato e televisivizzato, ma comunque ancora attratto da un eventuale ‘specchio’ in cui riconoscersi, di aver tentato, spontaneamente e con successo, di riaprire i giochi e rilanciato un cinema capace di parlare in ‘vero’ italiano, quella cifra che è la risorsa migliore e più affidabile alla quale attingere per diffondere nel mondo – che non aspetta altro – un prodotto identitariamente inconfondibile come ‘made in Italy.

Nel caso di Matteo Garrone, questa ‘italianità’ va rintracciata in quelle che sono state sempre sue peculiarità di autore, cui attribuire, pur nella naturale evoluzione artistica che, come si diceva, porta un creativo a passare da una fase ‘giovanile’ ad una più matura per poi incamminarsi verso una più solida e consapevole età d’argento, segni riconoscibili e ascrivibili a uno ‘stile’ tutto suo, un marchio di fabbrica che distingue una sua opera da quelle di qualunque altro cineasta e collega che operi negli stessi suoi ambiti. Meraviglioso è stato, per chi segue e ama il cinema, accompagnare Garrone dai suoi primi passi cinematografici (i corti Ospiti e Terra di mezzo, compresa la sua folgorante opera prima, Estate romana) fino al grande successo di pubblico de L’imbalsamatore, e alla consacrazione internazionale di Gomorra, vincitore di un premio a Cannes e che arrivò a sfiorare l’Oscar. Altrettanto meraviglioso è stato, per gli innamorati dello sguardo di uno dei (pochi, pochissimi) cineasti in grado di ripensare e ridefinire uno sguardo cinematografico italiano sul mondo e sulla realtà, accompagnare Garrone nei suoi tentativi di azzardare nuovi percorsi e nuove suggestioni, che pur con le imperfezioni e i rischi che una ‘strada nuova’ necessariamente comporta, lo ha condotto a confezionare Reality e Il Racconto dei Racconti, prodotti sintomatici di un desiderio di rinnovamento e autorigenerazione addirittura commoventi per chi abbia da sempre seguito con ammirazione mai spenta le gesta del Matteo nazionale.

Ad un certo punto inizia a circolare nell’aria la notizia di un suo nuovo progetto, un Pinocchio, che è come dire una sorta di campo minato, dove già altri sono miseramente caduti, ma nelle mani di Garrone, non c’è da dubitarne, il risultato sarà strepitoso. Invece tutto si inceppa. Gli effetti speciali richiedono più tempo, troppo tempo. E allora arrivano le nuove notizie della riesumazione di un vecchio progetto, una sorta di conclusione di un’ideale Trilogia iniziata con L’imbalsamatore e proseguita con Primo amore: la storiaccia del canaro della Magliana. Tutti d’accordo nel riconoscere in uno dei fatti di cronaca più impressionati degli anni ’70 un territorio adattissimo alle sue corde. Ma quali corde? Quelle di un autore che intanto ha esteso il proprio campo d’azione dimostrando, forse non al grande pubblico (che lo ha tradito al botteghino) ma certamente a chi attentamente lo monitora decifrando e decodificando ogni suo passo in territori nuovi e inesplorati, di voler raccontare altre storie, allargando il proprio vocabolario espressivo. Finalmente il Festival di Cannes annuncia in concorso il suo Dogman, da molti, anzi da quasi tutti accolto entusiasticamente come ritorno alle origini, cioè agli ambienti e ai torbidi squallori che facevano da sfondo ai suoi primo successi. Altri ancora, invece, sospettano il ‘passo indietro’, una fuga sicura in un territorio conosciuto e già fertile di successi e riconoscimenti invece che proseguire nell’audace ricerca di qualcosa che potrebbe rivelarsi fallimentare, specie se affrontata con poca convinzione. Ed eccolo, questo nuovo Dogman, presentato in Croisette come evento tra i più attesi e ‘forti’ del Concorso.

Ahimè, nonostante gli applausi e il generale consenso della stampa (anche se le più autorevoli riviste francesi di settore lo hanno più o meno sonoramente bocciato), almeno chi scrive non può che esprimere tutte le proprie perplessità e i propri dubbi di fronte a un’opera difficilmente ascrivibile al miglior Garrone, carente com’è di tutte le cifre espressive che in passato hanno imposto il suo cinema e il suo sguardo come uno dei più originali e potenti della cinematografia mondiale. La miracolosa spontaneità ottenuta dai suoi attori, quel senso di autenticità iperrealistica magicamente ricreata sul set grazie a uno sguardo che si insinuava tra fatti e persone e li irretiva in una stretta mortale che li trascinava sul fondo in tutti gli altri titoli di una filmografia più che lusinghiera, hanno in Dogman ceduto il passo ad una rappresentazione dalla patina quasi televisiva (una tv di lusso, ovviamente, ma pur sempre televisione), impostata su termini fenomenologici di banale semplificazione, agli antipodi dell’idea del fatale spessore che in genere tiene legati i personaggi di una tragedia. Filmicamente, si registra con amarezza l’assenza, o meglio la mancanza di messa a fuoco di uno sguardo in grado di stabilire una traiettoria, quella linea di regia che era la caratteristica più evidente di tutte le sue precedenti realizzazioni. Non basta allestire un set dove viene, pur egregiamente, ricreato un ipotetico Nowhere sul litorale tirrenico tra Sabaudia e Mondragone (più o meno lo stesso teatro dell’azione dell’Imbalsamatore), se poi lo si fotografa edulcorandolo in una color correction da fiction di Sky rinnegando la grana e la pasta grezza della fotografia grigia, bluastra, congelata che ridipingeva la luce cruda e allucinata dei suoi primi film. Non basta scegliere un protagonista, con una faccia e una fisicità ‘che in Italia stanno scomparendo’, come ha dichiarato lo stesso Garrone, se poi non lo si sostiene con uno script puntuale che non lasci spazio ai pericoli e alle incertezze dell’improvvisazione, e con una regia che adeguatamente provveda a rendere credibili gesti e parole che suonano, invece, impostati, finti, come di chi si metta innaturalmente in posa per una fotografia. Nemmeno per un istante si arriva a credere che quella ragazzina da spot pubblicitario che parla un italiano correttissimo e che pronuncia frasi assurde come ‘La mamma deve andare a fare alcune cose’ possa essere davvero la figlia di un emarginato mingherlino e disadattato come il Marcello protagonista. Né si crede mai all’amore dell’uno per l’altra, dichiarato con un’enfasi fastidiosamente recitata ed eccessivamente esibita. Movimenti di macchina casuali e, almeno apparentemente, imprecisamente motivati inquadrano con compiaciuta ma poco ficcante oggettività le architetture e gli ambienti di una provincia degradata che suonano datati, già visti e digeriti, inutilmente riesumati per mostrare un degrado ormai superato da ben altri paesaggi di alienante perdizione morale, per quanto il tentativo, nobilissimo, fosse quello di ricreare le atmosfere di un western. La fenomenologia dei comportamenti, ne L’imbalsamatore congegno magistrale di quella strisciante spirale progressiva di cui sopra, viene qui già data per scontata, senza fornire plausibili informazioni sulle relazioni che legano il ‘canaro’ Marcello al belluino Simoncino, quest’ultimo senz’altro il più riuscito ritratto del film, appositamente tenuto ai margini delle inquadrature tanto da stimolare nello spettatore il desiderio di quel paio di rari primi piani in cui è reso finalmente individuabile. Buchi anche gravi della narrazione non aiutano ad entrare nel pozzo nero di una vicenda che in quanto già conosciuta, non arriva a svelare niente che già non si sapesse, anzi si sottrae a quello che sarebbe stato invece il dato più cinematograficamente interessante sotto il profilo della rappresentazione e della messa in scena, ovvero la lunga seduta della tortura indelebilmente impressa nell’immaginario di chi, all’epoca, fu informato dai giornali della folle e terribile vicenda del ‘canaro della Magliana’ (da cui comunque il film si smarca, con un esplicito titolo in coda). Ovvio, nessuno pretende di chiedere a Garrone di raccontare quel che forse intenzionalmente non ha voluto mostrare. Però il cinema, e questo Matteo lo sa bene, non è solo mostrare qualcosa: è soprattutto ‘come guardarla’. Si stenta a rintracciare una qualsiasi necessità narrativa in sequenze pleonastiche addirittura inadeguatamente curate nell’allestimento scenografico e registico come la gara canina o la serata in discoteca, né si decifra il senso delle ben due escursioni sottomarine di Marcello e di sua figlia, abbozzate piuttosto approssimativamente. Se nel climax della trappola finale tesa da Marcello a Simoncino il film raggiunge, con un troppo a lungo desiderato guizzo di cinema, il suo apice drammatico efficacemente messo in scena puntellato dai controcampi dei cani che, chiusi nelle loro gabbie, assistono con occhi carichi di compassione quasi umana alla mattanza, tutto crolla in uno dei finali più vuoti di cinema degli ultimi anni: lo sguardo in primo piano di Marcello, che dovrebbe essere spaesato e disorientato per quanto ha appena fatto e per il risultato che (non) ha ottenuto, risulta inquadrato da una macchina da presa (maneggiata, come è consuetudine, dallo stesso Garrone) che non sa come guardarlo, e gli affida l’intera responsabilità della scena, sottraendosi al primo obbligo del cinema, che è quello di essere, attraverso il regista, sovrano assoluto dello sguardo da imporre a quello degli spettatori.

Se tornare indietro verso le origini del suo cinema ha significato per Matteo Garrone abdicare al proprio legittimo desiderio di compiere un passo ulteriore nella definizione della propria natura di artista della visione, non c’è che da sperare nel superamento di una oggettiva crisi in atto, perfettamente normale nella vita di ogni artista alla ricerca di una verità artistica non sempre a portata di mano. Purché ciò avvenga in fretta, senza cadere in altri nocivi passi falsi, e senza troppo adagiarsi sul successo – ma di questo c’è da essere solo felici – che senz’altro arriderà a Dogman, uscito nelle sale italiane all’indomani della prima mondiale al Festival di Cannes.


CAST & CREDITS

(Dogman); Regia: Matteo Garrone; sceneggiatura: Ugo Chiti, Maurizio Braucci, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso; fotografia: Nicolaj Brüel; montaggio: Marco Spoletini; interpreti: Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Alida Baldari Calabria, Nunzia Schiano; produzione: Archimede, Le Pacte; distribuzione: 01; origine: Italia, 2018; durata: 102’


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