DVD - Il giardino della violenza

Tre teppistelli di quartiere percorrono una strada a passo veloce. Intorno a loro scorre un paesaggio suburbano cui il bianco e nero della fotografia originale (certamente debitrice dei modelli del grandissimo noir americano da Giungla d’asfalto sino a Il grande sonno) dona i toni di un quieto degrado. Ovunque sono palazzi in pietra, scale antincendio, piccoli mercati nei quali le massaie fanno la spesa con la paura che qualcuno le derubi del portafogli. Un vociare costante, persistente che sembra non volersi accorgere del passaggio dei tre loschi figuri che certo hanno qualcosa per la testa, ma sembrano per lo più intenti in una passeggiata furiosa e nervosa.
La macchina da presa non sceglie di stare su un cavalletto a riprendere le cose con rassicurante oggettività, ma si butta nel passo ritmato della loro corsa inesorabile, ne diviene una parte integrante. Nell’inesausto tentativo di seguire i personaggi dando spazio anche all’ambiente che li circonda, la cinecamera rischia ad ogni passo di smarrirsi. Qualche volta sono i personaggi ad uscire quasi dal campo, seguendo la loro realtà che non ha niente a che vedere con la finzione cinematografica. Altre volte è l’ambiente a rivendicare, per qualche secondo, un dippiù d’importanza, a pretendere le luci della ribalta, il primo piano del divo di turno.
Alla fine i ragazzi arrivano ai piedi di una scalinata sulla quale un portoricano, con la sorella ed un’amica di famiglia improvvisano una lieta baldoria e, senza un fiato, si avventano sul terzetto uccidendo il ragazzo. Un gesto folle, colto a distanza. Un urlo. Un dettaglio. La corsa disperata e la polizia che chiude i conti coi fuggiaschi in campo lungo.
Questo l’incipit fulminante, bellissimo, di Il giardino della violenza, capolavoro di John Frankenheimer del 1961. In poche, brutali inquadrature il regista americano riesce nel non piccolo di miracolo di raggrumare una visione disperata ed esasperata della vita nella metropoli americana. Miscelando la lezione del cinema del passato (John Huston, ma non solo), l’autore si inerpica coraggiosamente sul terreno impervio del cinema a tesi riuscendo miracolosamente ad evitarne le trappole più insidiose.
La tesi, del resto, era chiara sin dal romanzo da cui questa splendida pellicola trae ispirazione: A matter of convintion di Evan Hunter. Dichiarativo sin dal titolo, il libro in questione (che non era mai piaciuto granché a Frankenheimer) voleva essere la spassionata descrizione di un processo il cui verdetto appariva deciso prima ancora del suo stesso inizio.
Il regista americano ribalta come un guanto ogni assunto del romanzo. Non si accontenta di giungere, come fa il testo di partenza, alla dimostrazione che i ragazzini che hanno perpetrato questo delitto assurdo sono forse meno colpevoli di quel sistema che li fa vivere in un mondo abbruttito dalla malavita, ma allarga il raggio della sua indagine a caccia di una verità ulteriore. La sua macchina da presa è in tutto e per tutto come il protagonista che mette in scena: un avvocato, cresciuto per di più in quello stesso ambiente che è stato scena del crimine, che non si accontenta della verità precostituita dai media e da un governo in cerca di acclamazione popolare, ma che cerca prima di tutto la verità delle cose.
Così la macchina da presa del regista cerca i luoghi reali, rifiuta, appena può, le convenzioni del teatro di posa, e si affida allo sguardo vero di attori presi dalla strada, rubati dall’ambiente che è unico vero protagonista della pellicola. Mentre l’immagine racconta il suo mondo, la storia tratta dal romanzo avanza inesorabile tra i colpi di scena che al regista sembra interessino davvero poco. Apprendiamo così che uno dei teppistelli, in realtà, era molto ben voluto dai portoricani, mentre un altro era poco più che ritardato. Apprendiamo, inoltre, che il portoricano, benché cieco, approfittava della sua posizione di invalido per aiutare la sua banda a nascondere le armi durante le retate e che aveva costretto la sua stessa sorella ad intraprendere la strada della prostituzione. Dettagli superflui perché le prime inquadrature del film ci avevano già detto, a modo loro, di un mondo dove tutti sono vittime e carnefici al tempo stesso. E la madre che, nel finale, chiede scorata una giustizia impossibile, diventa emblema estremo, quasi langhiano, di una tragedia antica. In tribunale le Eumenidi trionfano, ci dice il regista in cerca di happy-ending, ma nessuno paga le colpe di tutti. Ed è proprio qui la vera tragedia.
La qualità audio-video
Complessivamente buona la qualità audio-video del dvd. Non emergono, infatti, particolari difetti né sulla traccia video, che riproduce il bianco e nero originale rispettandone il più possibile le sfumature, né sulle due tracce audio (italiano ed originale), entrambe in una filologica e corretta codifica mono.
Lo spettatore più avveduto preferirà, tra le due, senz’altro la traccia originale più calata nell’ambiente del racconto.
Extra
Purtroppo solo un piccolo booklet non particolarmente interessante. La povertà del pacchetto extra non inficia comunque l’indubbio valore di questa pregevole offerta editoriale.
(The young savages); Regia: John Frankenheimer; interpreti: Burt Lancaster, Dina Merril, Edward Andrews, Larry Gates, Shelley Winters; distribuzione DVD: Ripley Home Video
formato video: 1.77:1 - 16/9; audio: Inglese e Italiano, Mono; sottotitoli: Italiano
Extra: 1) Booklet
