X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Effetto notte: Birdman

Pubblicato il 3 giugno 2020 da Francesca Pistocchi


Effetto notte: Birdman

Immersi nel torpore di queste giornate in cui tempo e spazio sembrano dilatarsi (o accorciarsi!) all’infinito, capita spesso di subire un déjà-vu. Nulla di nuovo: in un certo senso, il cinema – se trattato con la giusta grazia – è l’arte autoreferenziale per antonomasia. E, seguendo con la coda dell’occhio i voli pindarici di Michael Keaton in Birdman (Alejandro González Iñárritu, 2014), possono riemergere ricordi mai sopiti: ricordi che appartengono un po’ a tutti e un po’ a nessuno, come quelli rievocati da Effetto notte (François Truffaut, 1973). Insomma, certi film hanno una carica emotiva e immaginifica così importante che si tende a rivederli ovunque, o almeno là dove se ne riprendono più o meno esplicitamente le fila. Nella pellicola di Iñárritu, Riggan Thomson è un ex supereroe fuori tempo massimo che sogna Broadway. Da brava stella di Hollywood ormai decaduta, egli ha alle spalle un passato di uomo violento e probabilmente alcolizzato, un divorzio e una famiglia a pezzi – figlia eroinomane compresa. In generale, all’appello non manca nessun cliché: anche in questo caso, entrano in scena tutte le figure chiave dell’industria cinematografica, ma parodiate con un maggiore sarcasmo rispetto a Truffaut – le cui intenzioni erano totalmente diverse. Nell’ordine (e in entrambi i film), possiamo trovare il produttore nevrotico, il divo puerile e pseudointellettuale, l’attrice perennemente esordiente, e poi truccatori, tecnici, assistenti – sorta di revenants in un limbo sospeso fra realtà e obiettivo. Il cast, ancora una volta, è eccezionale: Emma Stone, nei panni dell’adolescente problematica, esibisce una personalità decisamente più tortuosa e sfaccettata rispetto al cartonato un po’ stucchevole offertoci successivamente da La la land. E ci si chiede per quale motivo Zach Galifianakis, qui braccio destro e unico amico del protagonista, venga ricordato soltanto per Hangover – almeno, nella memoria di massa. Da non dimenticare Edward Norton, caricatura irriverente di quell’eterno Tyler Durden nato fra le pagine di Palahniuk ed entrato nell’immaginario comune vestendo i panni un po’ dismessi dell’antieroe. Realtà e finzione cinematografica si intersecano a vari livelli, arrivando a sfociare perfino nel nostro mondo.

Come Ferrand quarant’anni prima, anche Riggan si aggira fra le claustrofobiche strettoie di un luogo leggendario (il Teatro Saint-James!), dando voce alle mille voci della cinepresa e ripercorrendo i corridoi del suo stesso animo: l’interrogatorio alla settima arte è un percorso involuto e complesso di cui non si conosce la meta. Nel caso del nostro Birdman tuttavia, è presente un tono demistificatorio con cui il regista (forse unico vero narratore) esalta e al contempo mette in ridicolo il nuovo sovrano del botteghino, incarnato da un Batman più o meno carnevalesco. Iñárritu chiama la sua opera Le imprevedibili virtù dell’ignoranza – tanto delle operazioni meramente commerciali quanto degli addetti ai lavori: Tabitha Dickinson, critica dal nome parlante presso il New York Times, pensa bene di elevare il tentato suicidio di Riggan a nuova forma d’arte. Nel suo articolo si parla di super-realismo, e il termine non si distanzia poi tanto dal linguaggio brutalmente pop usato e abusato nel labirinto del web. Forse l’uomo mascherato che insegue il protagonista per le strade di una metropoli da social network aveva ragione: al di là di ogni infrastruttura, il pubblico vuole semplicemente il sangue. They want blood: è su tale imperativo, sostituto della vita stessa, che si erge il palcoscenico del grande schermo (i tedeschi negli anni ’20 la chiamavano Schaulust). Riecheggia nella mente dello spettatore l’anatema di Truffaut: “Che cos’è questo cinema? Cos’è questo mestiere in cui tutti vanno a letto con tutti, in cui tutti si danno del tu e in cui tutti fingono? Lo trovate normale? Io il vostro cinema lo trovo irresponsabile!”. La medesima condanna la ritroviamo – guarda caso! – anche nelle battute iniziali di Birdman (“Come siamo finiti qui? Questo posto è orribile”), oggi ormai estesa a formula collettiva.

In entrambi i casi possiamo scorgere un’umanità intenta a scappare dall’ordinario attraverso la sua stessa proiezione romanzesca: i drammi concepiti da Ferrand e Riggan si assomigliano incredibilmente (un triangolo amoroso dai risvolti tragici), ma ben più importante è ciò che accade a telecamera spenta. Je vous présente Paméla e What We Talk About When We Talk About Love raccontano vicende analoghe, tradendo però le diverse intenzioni di chi al loro interno si nasconde: se il primo intreccio si snoda in un omicidio, il secondo sfocia in un suicidio. Inevitabile, poi, la palese opposizione fra i due finali: mentre la Nuit américaine invita il pubblico ad una buona visione, scindendo definitivamente cinema e mondo, Birdman ci manda letteralmente a quel paese: “Addio. E vaffanculo” è il giusto commiato che il regista ci rivolge. L’ultima performance di Riggan è la più artisticamente matura, e anche quella più vicina alla sua esistenza: ci si chiede se egli stia davvero recitando. La risposta è no: a quarant’anni da Truffaut, il difficile matrimonio fra realtà e finzione è stato finalmente consumato e il prodotto di questa unione si può leggere nelle parole del vecchio anti-supereroe: I’m not even here (non sono qui!).


Enregistrer au format PDF