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Fenomenologia di Maria De Filippi

Pubblicato il 19 ottobre 2003 da Alessandro Izzi


Fenomenologia di Maria De Filippi

Scriveva Umberto Eco di Mike Buongiorno che l’incredibile capacità del conduttore era quella di accedere, nel corso dei suoi programmi televisivi, alle più alte vette dello scibile umano e riuscire a ridiscenderne totalmente vergine.
Possiamo dire, a parziale discolpa del mitico presentatore delle vecchie glorie della televisione italiana (ora condannato al girone infernale del primo pomeriggio in eterna ripetizione di La ruota della fortuna) che, perlomeno, lui non aveva nessuna intenzione di fare davvero cultura. Erano le trasmissioni che conduceva, semmai, per la loro stessa natura di giochi a quiz, a sporcarsi le mani con i grandiosi frutti del sapere umano. Il buon Mike era, piuttosto, come un moderno commesso di supermarket che, prima di toccare una qualche mercanzia da consegnare al proprio avventore, fa bene attenzione, in pieno rispetto delle norme igeniche imposte dalla CEE, a mettersi un bel paio di guanti.
Il suo unico difetto era, se proprio vogliamo sindacare, l’eccessiva scrupolosità che lo portava ad indossare non uno, ma una dozzina di guanti di lattice.
Della Cultura in quanto tale al buon Mike non interessava nulla. Non ci provava nemmeno tutto preso com’era dal suo gioco di bieche metafore sessual-ornitologiche che ingenerevano nello spettatore quella sensazione di tristezza frammista a pietà che in genere viene tenuta in serbo, come un buon vino, per i casi più pietosi. Non insomma, come il più recente Gerry Scotti che approfitta di ogni occasione per ricordare come i suoi giochi a quiz altro non siano che (Udite, udite!) delle occasioni per insegnare al pubblico cose nuove scambiando, così, per cultura quelle domande che rivolge ai suoi concorrenti appena un gradino più sopra dei quiz alla Vero o Falso.

Se Mike Buongiorno toccava le vette himalayane dello Scibile senza neanche accorgersene e, se Gerry Scotti (quando non è impegnato a pubblicizzare una marca di riso) tenta, con gli strumenti di una trasmissione finto nazional-culturale, il salto in alto di un’ipotetica patente di dignità Culturale, l’unica altezza cui aspira Maria De Filippi è quella di quel metro e cinquanta da terra cui possono sollevarla (con visibile sforzo) i ballerini con i quali improvvisa legnosi passi a due.
Esempio vivente di come va concepita oggi la televisione da chiunque aspiri al massimo successo mediatico, la conduttrice, sulla cresta dell’onda di Canale 5, è, soprattutto, un limpido parellelo del decadimento generale dell’intera Società italiana.
Seguendo la logica del berlusconismo imperante, il massimo sforzo della De Filippi, che esprime tutto il suo talento in quel terreno franco del talk-show di americana ascendenza, risiede tutto nell’appoggiare il suo nome su programmi che potrebbero fare benissimo a meno della sua stessa conduzione.
Amici di Maria De Filippi (trasmissione che reca già nel titolo i prodromi di un larvale culto della personalità che non è, ad onor del vero, proprio della conduttrice, ma della rete che ne sfrutta l’immagine) è esempio di un programma che vive la propria vita sulla vampirizzazione delle aspirazioni di un gruppo di giovani ignoti per la fama caduca del tubo catodico. La presenza della conduttrice è del tutto accessoria (spesso è proprio lei la prima a non sapere cosa fare) allo snodarsi delle fila del destino di questi studenti di una scuola delle arti (notate bene: non Arti con la maiuscola) che non è che la parodia di un’accademia (chi prende ancora sul serio le boriose coreografie di un ex successo come Steve La Chance?). Maria (ci perdonerà se le diamo del tu, ma ci sentiamo autorizzati da un recente spot che la chiama per nome sulle immortali note di Bernstein) si limita a coordinare il lavoro delle vallette che portano il microfono alle persone del pubblico partecipante.
Uomini e donne (programma must di Canale 5) è ormai condotto più da Tina che dalla De Filippi per cui non vale più di tanto parlare di una trasmissione che sperpera i soldi degli sponsor in un inutile trionfo da talk show in cui ognuno si sente autorizzato ad aprire le proprie fauci e a dar fondo alla riserva di ossigeno dei propri polmoni in una serie di sgraziati fonemi che sembrano imitare un discorso di senso compiuto.
C’è posta per te funziona sulla dimensione del dramma umano a forti tinte, ma sono solo le Super Veline di Greggio e Iachetti o Sconsolata ad alzare gli indici di ascolto di un programma che poggia tutto il suo successo sulla morbosa curiosità del pubblico televisivo nei confronti del caso umano.

Se il pubblico televisivo di oggi non chiede niente di meglio che programmi da poter dimenticare nel momento stesso della loro realizzazione, è da dire che la De Filippi (in combutta con le trasmissioni domenicali, Mediaset e non) sembra essere la risposta perfetta alla domanda.
In lei si concentra tutta quella crisi di valore che riguarda direttamente l’intera sfera del linguaggio. La televisione, che nel proprio recente passato aveva ampliato il vocabolario dell’italiano medio, tende ora verso una contrazione dello stesso sempre più veloce ed inarrestabile. La terminologia dei ragazzi di oggi (lo si evince soprattutto a livello scolastico) si impoverisce di anno in anno, l’uso dei verbi si fa sempre più traballante con incertezze grammaticali che solo i nuovi test a risposta multipla imposti alle scuole (quelli che basta mettere una crocetta sulla risposta giusta: un modello che le Istituzioni hanno copiato di sana pianta da Gerry Scotti) può permettersi di ignorare.
Per questo motivo non fa più nessuna impressione il sentir parlare la De Filippi. I critici benevoli (Striscia la Notizia) scambiano le radici del problema con un uso inappropriato dei verbi irregolari, ma in realtà è l’intero fraseggio ad andare in tilt quando la de Filippi tenta di raccontarci un caso umano.
Frasi frante, soggetti che spariscono nel bel mezzo di predicati conditi da abbondante aggettivazione, verbi che non concordano per persona, modo e tempo con quanto le precede o segue sono solo il segno di un’incuria sempre maggiore nei confronti della lingua e della comunicazione.
In questo la De Filippi è specchio dei tempi (e per questo ha un certo successo), ma è la faciloneria con cui scaccia via questi difetti come fossero una mosca fastidiosa, che spaventa più di ogni altra cosa. Un comunicatore non può dire al suo pubblico “Portate pazienza, tanto, anche se sbaglio, mi capite lo stesso”. Un narratore non può perdere il filo del discorso e scambiare episodi accessori (che dovrebbero rimanere sullo sfondo) con eventi fondamentali. La conduttrice, e qui sta la sua indiscutibile intelligenza, nasconde il problema mettendolo avanti, cela la sua inettitudine (a ballare, a parlare, a muoversi, a condurre) facendone un proclama con la consapevolezza molto berlusconiana, che ogni suo errore viene accolto dal pubblico con simpatia e compartecipazione.
Purtroppo in un mondo governato dalla grammatica degli SMS questi difetti sembrano il pelo nell’uovo e, potrebbero obiettarci gli ammiratori, se proprio la minestra non va giù c’è sempre il telecomando.
Ma a che santo possiamo votarci se a cambiar canale il meglio che ci può capitare è un film tagliato da miopi censori o la D’Eusanio? Possibile che l’alternativa a questa minestra sia solo il tragico salto dalla finestra?

[ottobre 2003]


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