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Ferrari

Pubblicato il 20 febbraio 2003 da Alessandro Izzi


Ferrari

In linea di principio, il personaggio di Enzo Ferrari si presentava bene come figura simbolo per raccontare, in filigrana, un po’ tutta l’Italia del ’900, sia nelle sue dolorose contraddizioni (che con tanta naturalezza ci calano nelle confusione non solo politica di oggi), sia nei suoi inaspettati slanci vitali e propositivi. La sua parabola esistenziale, infatti, copre cronologicamente tutto l’arco che, dai difficili anni del ventennio fascista (a cavallo tra le due guerre) arriva, senza rotture, fino a quelli non meno controversi di quel boom economico già cantato criticamente in un capolavoro come Il sorpasso di Dino Risi. Peccato, allora, che questa possibile vocazione storica, ceda il passo, in corso d’opera, ad un racconto fin troppo cronachistico e frammentato che, nel tentativo di rendere con giustizia tanto le luci quanto le ombre di una delle figure imprescindibili della nostra storia, concentra il suo raggio d’azione troppo sul personaggio e poco su quegli eventi fondamentali che furono il non semplice sfondo su cui lo stesso si vide costretto ad operare. La base su cui poggia tutto il complesso castello della narrazione di questa fiction in due puntate è fin troppo risaputo e abusato. Ci troviamo, infatti, di fronte al solito dialogo-intervista, nel quale il protagonista, ormai vecchio e prossimo alla morte, racconta le tappe salienti della sua vita (riviste dallo spettatore in trepidi flash-back) ad un giornalista giovane e rampante, pronto a scavare anche nelle pieghe più dolorose e nascoste dell’esistenza dell’intervistato pur di fiutare un possibile scoop. La novità relativa che viene apportata a questo meccanismo narrativo che troppo si porta dietro una sua ascendenza da romanzo d’appendice, risiede essenzialmente nell’aura di mistero che si addensa proprio intorno alla figura dell’intervistatore: un ragazzo venuto metaforicamente dalla nebbia del tempo e del ricordo e somigliante non poco al figlio del protagonista morto giovanissimo. Ben presto ci si rende conto che questa figura misteriosa dimostra di avere non piccoli legami con l’intervistato di cui conosce la storia meglio dello storico o del biografo più informato. E, altrettanto in fretta, ci si rende conto di come lo stesso Ferrari cominci ad essere sempre più dipendente da questo sinistro giornalista; di come lentamente, ma inesorabilmente, un legame si stringa sempre più tra i due, nonostante la ripulsa che il vecchio industriale non riesce a non provare nei confronti del suo giovane interlocutore e che si rivela più che motivata dal momento che il secondo cerca di scavare con satanica pertinacia e senza un briciolo di compassione nel torbido e nell’inconfessabile che fa parte della vita del primo. Tutta la fiction sembra volersi appoggiare, allora, sulla costituzione di uno dei più classici segreti di Pulcinella perché, per quanti sforzi compiano gli sceneggiatori e il regista di ammantare di dubbi e di incertezze la reale identità del ragazzo, nello spettatore è da subito evidente la carica simbolica e la possibile origine ultraterrena (sarà un angelo? Uno spirito buono?) del personaggio. Il problema vero, comunque, non è tanto nello spunto metafisico e fantastico che sembrerebbe soggiacere tra le righe di questa pur solida operazione, quanto, piuttosto, nella dimensione troppo artificiosa e meccanica che finisce per assolvere, nell’economia del racconto, il dialogo tra i due personaggi. La loro contrapposizione appare sempre troppo schematica, le loro motivazioni troppo dichiarate perché ne venga fuori vera poesia e, ogni volta che la macchina da presa abbandona l’efficace ricostruzione scenica dei flash-back per tornare nel presente della loro intervista, si avverte immediatamente la dimensione didascalica ed indicativa del tutto. E quando, alla fine, il regista tira le fila del racconto, rivelando in un sol colpo la carica metafisico/psicologica dell’intervistatore, il montaggio, nell’inseguire suggestioni alla Shyamalan (come in un classico finale del regista indiano dove tutte le tessere sparse del mosaico che componevano il racconto trovano la loro giusta collocazione) rivela una povertà di mezzi che fa sorridere e crea un’impressione di deja vu che dispiace. Peccato, perché Carlei, come regista, gestisce e concerta bene il racconto, Castellitto, come attore, riesce ad aderire al suo personaggio in maniera più che efficace, Buonvino, come compositore, tira fuori dal cappello uno score di buon impatto specie nelle scene di corsa e gli sceneggiatori, se non altro programmaticamente, si pongono il non banale obiettivo di rendere anche gli aspetti più spiacevoli del personaggio. Un’occasione mancata.

(Ferrari); regia: Carlo Carlei; soggetto: Massimo De Rita, Mario Falcone; sceneggiatura: Massimo De Rita, Mario Falcone, Carlo Carlei; fotografia: Gino Sgreva (A.I.C.); montaggio: Claudio Di Mauro (A.M.C.), Luciana Pandolfelli (A.M.C.); musica: Paolo Buonvino interpreti: Sergio Castellitto, Ed Stoppard, Cristina Moglia, Jessica Brooks, Mathew Bose, Pierfrancesco Favino, Vincent Schiavelli, Elio Germano; produzione: Angelo Rizzoli per Rizzoli Audiovisivi S.p.A., Deangelis Group, Victory Media Group e Mediatrade

messa in onda: domenica 16 e lunedì 17 febbraio 2003 rete: Canale 5 orario: 21:00

[febbraio 2003]


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