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Festival del Cinema Spagnolo - Omaggio a Marco Ferreri

Pubblicato il 13 maggio 2009 da Donato Guida


Festival del Cinema Spagnolo - Omaggio a Marco Ferreri

Sabato 9 maggio, al cinema Farnese, è andato in scena il terzo ed ultimo atto dell’omaggio a Marco Ferreri; dopo aver proiettato, nei due giorni precedenti, i due documentari firmati da Maite Carpio e da David Trueba, nonché i primi due film spagnoli del regista – El pisito (1958) e Los chicos (1969) –, a chiusura del ricordo di uno dei maggiori autori del cinema italiano (oggi ingiustamente dimenticato) è stato scelto di proiettare il terzo e ultimo lungometraggio da lui realizzato in Spagna: El cochecito (1960).
Ad aprire l’ultimo appuntamento (per ciò che riguarda il ricordo dell’autore milanese) dell’evento cinemaSpagna, giunto alla sua seconda edizione, è intervenuta Stefania Parigi, noto critico cinematografico, ed esperta del lavoro di Ferreri. Pochi i presenti in sala ad assistere al film ed ascoltare la premessa dell’esperto cinematografico, nel ricordo di un autore che, in pieno periodo di crisi del Neorealismo, decide di “fuggire” in Spagna: il suo intento è quello di vendere obiettivi Totalscope per conto del produttore Alfonso Sansone; ma l’allora ventottenne Ferreri è avido d’esperienze: trascorre un periodo di vita da vero e proprio bohemien, tra letture, incontri, conoscenze e novità, in una Spagna che, sotto il comando di Francisco Franco, ha tanto un aspetto cattolico quanto una popolazione pagana, libertina, paradossale e comica. Tra i tanti incontri è quello con Azcona che segnerà la futura vita di Ferreri: i due creano un binomio regista-sceneggiatore inscindibile e quasi perfetto. Tutto il resto è storia narrata in qualsiasi libro di ricordi di ottimo cinema: l’incontro dei due in un caffè madrileno, le varie peripezie di Ferreri che, ancora in veste di produttore squattrinato, cerca un regista che possa dirigere le opere tratte dai racconti di Azcona, la proposta dello stesso scrittore che, ormai al limite della sopportazione, rivolgendosi al giovane omone milanese dice: “Marco, tu vuoi fare il produttore ma non hai un soldo in tasca; perché non diventi regista, così i soldi li devono dare a te?”, e Ferreri che, con sguardo candido che fuoriesce dall’azzurro intenso dei suoi occhi, nascosti dietro un grottesco volto da orco, risponde: “Tu dici?”. Questo è il passo iniziale di uno dei migliori autori del cinema italiano che, tolti i panni di “produttore campato in aria”, indossa quelli da regista (che più gli si addicono); con un occhio agli scritti di Azcona e un altro alla macchina da presa, Ferreri realizza El pisito, primo grande respiro di quella che sarà una lunga carriera costellata da grandi successi e tristi dimenticanze.
Tre le opere realizzate nella Spagna franchista – con la quale l’autore avrà tanti problemi censori (cosa che accadrà, puntualmente, anche al suo ritorno in Italia): se con El pisito Ferreri esplode come una bomba ad orologeria che mina le basi forti della società ispanica, e con Los chicos sembra fare un passo indietro rispetto all’opera precedente, è con El cochecito che Ferreri si fa conoscere da tutti come autore di buona qualità artistica e di ottime speranze future: una commedia ripiena di humor negro che, nata da lande e personaggi alquanto buñeliani, sottende la prima parte di un discorso personale che si svilupperà pienamente in film successivi (e, sicuramente, più noti alla maggior parte degli spettatori) quali Dillinger è morto (1969) e La grande bouffe (1973).
Opera nera, come detto, l’ultima che Ferreri gira in Spagna: Don Anselmo, un anziano madrileno in pensione, fa di tutto per convincere i suoi familiari a comprargli una carrozzella motorizzata (el cochecito, appunto) al fine di poter trascorrere le giornate insieme ai suoi “anormali” amici – storpi, menomati, paraplegici. La famiglia cerca in tutti i modi di dissuaderlo e ostacolarlo, ma lui, dopo aver bambinescamente mentito e rubacchiato, trova il modo più semplice per raggiungere il suo scopo: ammazza – avvelenandoli – tutti i componenti della sua famiglia (cameriera inclusa) e gira libero per le strade di Madrid fino a quando viene catturato dalle guardie, alle quali chiede candidamente se gli lasceranno tenere la carrozzella. Una violenza semplice e inaudita, talmente calcolata, candida e spietata da sembrare quasi geniale nel momento in cui è attuata: la logicità siede comoda nella mente del regista milanese; in effetti al vecchio Don Anselmo resta un unico modo per ottenere ciò che vuole e mette in atto questa soluzione senza soffermarsi troppo sulle conseguenze… Gli spettatori italiani – e non solo – dovranno attendere altri cinque anni prima di poter assistere ad un eguale grido d’accusa rivolto a una società asfissiante e claustrofobica: I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio sarà un’opera di maggior impatto, sicuramente, ma per la quale il regista piacentino non ha potuto non “trafugare” qualcosa all’ultimo film spagnolo di Ferreri.
I pochi spettatori presenti in sala ridono nell’assistere alle varie peripezie che Don Anselmo dovrà superare per raggiungere il suo scopo; ridono allo scambio di battute che il protagonista ha e con la famiglia, e con i suoi amici paralitici; e alla fine, quando l’ispanico Umberto D. sembra aver raggiunto la sua libertà a bordo di questo tanto agognato veicolo motorizzato, viene catturato per essere portato in carcere: in sala le risate si placano, e lasciano spazio al dispiacere di persone che avevano preso a cuore la causa di quello che potrebbe essere definito un “diverso”, perché fuori dalle regole della società, che cerca di ottenere la sua libertà, anche se i suoi modi potrebbero sembrare grotteschi ed estremi.
A quasi cinquant’anni dalla realizzazione, l’impatto che questo film ha sul pubblico non è affatto mutato: le opere di Ferreri continuano ancora a stupire, commuovere e farci fare delle risate grosse tanto quanto la panza (e il cervello!) di un autore che oggi, ingiustamente, è troppe volte dimenticato.


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