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Festival di Rotterdam

Pubblicato il 20 febbraio 2007 da Mazzino Montinari


Festival di Rotterdam

Si parla molto di festa del cinema, si cercano formule per riportare i film alla loro dimensione popolare, si cambiano direttori, staff, si promettono star, soggiorni di lusso, ballerine, ricchi premi e cotillon. E poi si finisce con le minacce: in sala dovrà essere obbligatorio vedere il settanta per cento di film italiani. Un’autentica punizione! Pare che a Torino il prossimo anno il cinema italiano sarà presente in massa, chissà cosa vedremo?
In attesa di risposte e... punizioni, ce ne siamo andati a Rotterdam a goderci un’autentica festa del cinema, una pluralità di persone, immagini, suoni in movimento. Nessuno a manovrare le culture, a disporle in ordine. Certo, nell’immersione, il rischio di avere poco spazio per fermarsi a riflettere è alto. Ma valeva la pena correrlo. Si vede di tutto, e tutti si vedono. Le sale piene, i locali affollati (dove si può ancora fumare!), con registi, attori, produttori e spettatori mescolati tra loro senza guardie del corpo e odiosi cerimoniali a far intendere la vera orizzontalità di una manifestazione. E poi niente nazionalismi, la fondazione Hubert Bals sostiene tutti, gli asiatici e gli africani, i sudamericani e gli europei. Centinaia di film che non sono aiutati per la sola proiezione al festival ma per essere distribuiti nei luoghi d’origine e nelle altre mostre: non vi facciamo lavorare il tè per berlo solo noi. Questo è il Festival di Rotterdam giunto alla trentaseiesima edizione.
Altro Paese, altra mentalità, ma perché non copiare?
Molte anteprime ma anche tante riproposizioni. Il cinema di un anno raccolto in dieci giorni, disseminato in una ventina di sale. Il risultato è che si vaga senza fare grande attenzione se il tal film è in concorso oppure fa parte di un’altra sezione. E allora si scopre che il cinema in ogni latitudine guarda il mondo in senso ampio, pone quesiti, cerca risposte per poi proporre altre domande. Uno sguardo attraverso, dove le macchine da presa e le videocamere si pongono fuori o dentro il mondo, in modo ravvicinato o distante, protagoniste esse stesse di ciò che riprendono o fredde registratrici delle realtà del nostro tempo. Da questa pluralità in movimento sembra che il sentimento più diffuso sia rivolto maggiormente all’individuale che al collettivo. Non mancano gli affreschi di società in mutamento, ma la tendenza è quella di ripartire dal singolo, dalla sua identità. Ne è una prova il film in concorso dello spagnolo Rafa Cortés, Yo, opera prima di buona fattura con protagonista un tedesco che emigra a Maiorca e si sostituisce a un suo connazionale omonimo. Chi è Hans? Un fantasma, un vampiro, uno che passa per caso? Non lo sappiamo, nei vicoli stretti al limite del claustrofobico della cittadina spagnola, l’uomo inizia un percorso esistenziale individuale dal quale tutti restano esclusi. Tempi di guerra, di retroguardia. Battaglie sotterranee che minano lo stare nel mondo così come accade nel film corale (ma solo per la moltitudine di personaggi) della russa Katya Grokhovskaya, Chelovek bezvozvratny (The Man of No Return). Individui persi nel disagio di una vita che si divide tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è realmente. Mosca come la Kuala Lampur di Love Conquers All della malese Tan Chui Mui vincitrice insieme al violento brasiliano Baixio das bestas di Claudio Assis, allo splendido mockumentary AFR del danese Morten Hartz Kaplers e al tedesco Die Unerzogenen di Pia Marais, dei premi più importanti del festival. Film che ribadiscono la scollatura tra l’io e mondo, tra individuo e individuo. Altro che famiglie solide, il cinema non è roba da preti! E per fortuna.

Al di là del premio conseguito, il cinema malese ha saputo offrire ottimi film. Love Coquers All lo vedremo presto in un festival italiano, gli altri chissà. Ad esempio Nian ni ru xi (Before We Fall in Love Again), una storia leggera ma capace di proporre figure umane complesse che escono dallo stereotipo dell’informazione massificante che attribuisce a determinate culture altrettante determinate tipologie. Un marito e un amante che cercano insieme una donna, quella che amano e che ora è scomparsa misteriosamente. Una donna che non c’è, eppure così presente, così forte, capace di soggiogare e ribaltare il senso comune. E sempre malese è Gubra (Anxiety) della regista Yasmin Ahmad. Altro ribaltamento del senso comune, altra fuga dagli schemi e dagli stereotipi. Donne e uomini che si muovono dentro le loro difficoltà in modo imprevedibile, dove amore e religione non sono prigioni del corpo e dello spirito ma sentimenti che tracciano percorsi del senso, e come tali possono farci perdere o ritrovare.
Questo festival ha mostrato molte figure femminili, dietro e davanti la macchina da presa. Una su tutte, la regista americana Nina Davenport che con Operation Filmmaker mostra la difficoltà di poter afferrare la realtà con la videocamera, al punto che si ritrova catapultata dentro il proprio documentario. In questo caso è la realtà ad aver afferrato la videocamera con tutto il braccio che la reggeva. Un ragazzo irakeno vuole fare cinema, arriva la regista che gli offre l’opportunità di andar via da Baghdad, direzione Praga, destinazione il set di Ogni cosa è illuminata. Sembra una bella favola, ma poi il ragazzo si ribella, non pensa di aver ricevuto un trattamento equo. Forse è soltanto ingrato e maleducato, tuttavia costringe la regista a entrare in campo e lasciare il suo ruolo di osservatrice per diventare parte della realtà ripresa, del conflitto. E il documentario si trasforma in un making of di se stesso. Mantiene il ruolo di osservatrice Maria Saakyan con Mayak (The Lighthouse). Uno sguardo delicato ed emozionante su una zona martoriata dalla guerra. Non si fa ricorso a parole e didascalie, proliferano i suoni, le musiche e le immagini. Lena, la protagonista, è la donna nel quale ognuno di noi potrebbe rispecchiarsi, lacerata tra la volontà di restare nel proprio mondo e il fuggire. Impotente di fronte a un destino che non le appartiene nel senso che altri lo stanno costruendo per lei. Vicenza non è poi così tanto lontana dai lembi di terre che solo in apparenza sembrano far parte di altri pianeti. Come Lena anche noi vorremmo restare e al tempo stesso fuggire. Come Lena anche noi vediamo il nostro destino sfuggirci di mano. Gli aerei volano sopra la testa di Lena e le nostre a distribuire morte e chi reclama il suo inalienabile diritto di vivere è considerato semplicemente un pericoloso estremista dedito all’eversione.


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