Fiction Italia – Pinocchio

Già nel testo di Carlo Collodi era evidente come rivestisse un certo peso, almeno inizialmente, la tematica inerente alla creazione artistica, dove Mastro Geppetto era l’artigiano che, grazie a un intervento ultraterreno, dà vita alla propria opera, quasi come nel mito di Pigmalione e Galatea, memore del «Perché non parli?» che Michelangelo rivolse al suo Mosè. Il rapporto autore-creatura diviene così un forse ancora più forte legame padre-figlio.
È possibile che sia stato questo il punto di partenza per il lavoro degli sceneggiatori Ivan Cotroneo e Carlo Mazzotta, alle prese con la fiaba immortale della nostra letteratura in una produzione italo-britannica diretta dal regista Alberto Sironi, una miniserie in due puntate della quale è già pronta una trasposizione per la sala. Il libro era stato precedentemente adattato per la televisione attraverso Le avventure di Pinocchio, lo sceneggiato capolavoro di Luigi Comencini che nel 1972 illuminò lo schermo della Rai, il miglior Pinocchio di sempre assieme all’Intelligenza artificiale di Spielberg. E tale è stata la voglia di distaccarsi da un tale apice della nostra televisione che qui, rispondendo a una esibita e anche apprezzabile volontà di ’innovazione’, è stata inserita una cornice secondo la quale Carlo Collodi (Alessandro Gassman) è uno scrittore alle prese con il vuoto impresso sulla pagina bianca; quando si imbatterà, però, in un certo Mastro Geppetto (Bob Hoskins), un signore rimasto solo dopo la morte della moglie e del figlio appena nato, riceverà l’impulso per scrivere la storia del burattino Pinocchio (Robbie Kay), progenie che decide di andarsene in giro per il mondo da sola, sulle proprie gambe corte come talune bugie, sfuggendo di mano al controllo del proprio creatore. Creatore che, ignaro di tutto ciò, penserà di aver inventato solamente un personaggio, ma nulla che esista realmente.
Passano gli anni, una quarantina all’incirca, e muta anche l’esprit du temps e, con esso, un Paese intero: l’Italia nei primi anni Settanta era ancora una nazione col sentore di una povertà endemicamente diffusa durata secoli su secoli; oggi, invece, la situazione è giunta fino alla rimozione della percezione di tale orrore. E proprio Pinocchio può essere preso come esempio di tutto ciò: perché mentre nell’opera letteraria, come in quella comenciniana, premeva tale sensazione di un’assenza totale da riempire in ogni modo, così in quest’ultima versione, come anche in quella cinematografica di Benigni, gli aspetti più duri vengono soppiantati da un’atmosfera dove il freddo viene sostituito da un calore magico fatto di effetti speciali digitali (comunque apprezzabili in entrambi i casi), senso della meraviglia che sopravanza l’impeto che dovrebbe essere libero di sprigionarsi da corpi totalmente umani.
E di ciò ne fa le spese l’intero progetto, un complesso dove è ostentata la consapevolezza legata a uno studio - che si immagina approfondito - del testo di partenza. Consapevolezza rinforzata dall’esibizione dell’atto del narrare, grazie alla cornice attraversata dal personaggio Collodi e dalla sua voce narrante, comunque poco presente, soprattutto nella lunga parte centrale della prima puntata. Lo spazio lasciato vuoto dai suoi non frequenti interventi viene, però, colmato dall’invadente commento musicale scritto da Jan A.P. Kaczmarek (L’ospite inatteso e il Premio Oscar Neverland), ricco di numerosi brani che forniscono alla storia sfumature tutt’altro che fantasiose. Peccato mortale, questo, che fa da pendant a una regia alquanto anonima. Per questo motivo non può bastare il cast assai ricco di nomi che, oltre a quelli già ricordati, allinea tra gli altri Luciana Littizzetto (un Grillo parlante più volte presente in scena e a grandezza naturale), la maestrina Margherita Buy, la Fata Violante Placido senza capelli turchini, un po’ fanciullina e un po’ guida materna, e due fratelli lestofanti, ossia la Volpe Toni Bertorelli e il Gatto Francesco Pannofino. Solamente questi ultimi e la Littizzetto sanno un minimo destare l’attenzione intorno a sé, mentre neanche Bob Hoskins, un Geppetto poco tradizionale e alquanto energico, è in verità apparso a suo completo agio. Gli unici, sparuti, motivi di interesse sono pertanto legati a brevi intuizioni nello script che, tuttavia, non rappresentano punti nodali sufficienti affinché il tutto possa svilupparsi armoniosamente secondo una progressione costante.
Il risultato è, perciò, solamente un corpo vuoto come un pezzo di legno, senza un cuore che batta forte e incapace di pulsare come carne viva: in poche parole, una ennesima occasione persa per la nostra televisione generalista.
