Fiction Italia - Sotto il cielo di Roma

Comincia con un’immagine iconica di forte valore concettuale, questo Sotto il cielo di Roma di Christian Duguay.
Il Papa, da poco testimone a distanza di un bombardamento alleato che ha colpito il quartiere San Lorenzo, scende tra la gente, senza scorta né gendarmi, per accertarsi coi suoi occhi dell’entità del danno e per mostrarsi quanto più possibile vicino alla gente che soffre. In breve il pontefice è circondato da una folla di derelitti che tendono verso di lui le mani in cerca di consolazione e l’uomo, in preda al pathos di una situazione emotivamente intollerabile, spalanca le braccia a mimare, nella croce, l’orrore della propria impotenza. Nel frattempo un vorticoso dolly verso l’alto schiaccia le figure al suolo creando una sorta di epos degli umili.
Et voilà! Il santino votivo è già qui, restituito al pubblico, mirabile nella sua immediata semplicità, in una delle prime inquadrature di una fiction in due puntate che va ad intervallare la programmazione serale degli spot pubblicitari che Mamma RAI ci propina con cura doviziosa.
Il Papa emerge come figura carismatica, pronta a caricarsi del fardello della sofferenza di molti, sporco del sangue della sua città, dolente per i fatti storici che si accavallano sotto la sua finestra in quel lontano 1943 che avrebbe visto i primi rastrellamenti nel ghetto ebraico della città capitolina.
L’inquadratura ripete, a pensarci bene, una delle più potenti scene di Kundun: quella del sogno del Dalai Lama in cui il personaggio si trova al centro di un campo di cadaveri mentre un dolly ancor più vertiginoso isola la sua impotenza di fronte al dipanarsi della Storia. E le similitudini col personaggio scorsesiano proseguono più avanti quando il pontefice si informa, come faceva nel vecchio film americano il futuro premio Nobel per la Pace, sugli eventi storici in corso direttamente dai cinegiornali, montando lui stesso la pellicola su un ottimo proiettore. Anzi la macchina da presa di Duguay gioca di citazione riprendendo il suo personaggio che si avvicina allo schermo pieno di trepidazione ed incredulità mentre il male assoluto riempie il fotogramma. In Scorsese, questo male, era la bomba atomica, qui Hitler.
Il gioco è dichiarato: i due personaggi sono accomunati dall’impotenza. Kundun non poteva opporsi all’avanzata cinese nel Tibet perché il suo mondo ancora arcaico era fatto di archi e frecce mentre il nemico aveva pistole e fucili. Pio XII non poteva arrestare la barbarie nazista perché la sua unica arma era la parola mentre i nazisti avevano treni e campi.
Di più: il Dalai Lama era figlio di una cultura della “non violenza” che gli imponeva di non rispondere al fuoco col fuoco, Pio XII, ci si dice, doveva star zitto perché, avesse parlato esprimendo al mondo il suo disappunto per la strage degli ebrei, avrebbe prodotto rappresaglie che avrebbero aumentato il numero dei morti.
Come pezza a questa opinabilissima teoria, ci si cita il caso dell’Olanda che, nel 1942 inasprì le deportazioni come rappresaglia nei confronti delle vibranti proteste del clero per le leggi razziali operanti nel paese. Il Papa che aveva già scritto, ci si racconta, un discorso nel quale appoggiava le proteste, a seguito della deportazione coatta di 4000 ebrei, preferì bruciare il documento del quale non resta, quindi, alcuna traccia.
Uhm! Raul Hilberg, potente storico della Shoah, dimostra che le deportazioni olandesi furono pianificate con scrupolo assoluto e con una calma che rasenta la maniacalità del buon burocrate (Eichmann). Era, infatti, intenzione dei gerarchi nazisti eliminare gli oltre 120000 ebrei olandesi nel minor tempo possibile. Cosa resa possibile dal fatto che il governo locale risolse la sua azione politica in una connivenza assoluta al dettame razziale del Reich. Le operazioni andarono semmai a rilento perché la popolazione olandese, pur nei limiti di una protesta più simbolica che altro, attivarono, soprattutto all’inizio, una serie di scioperi motivati non tanto da simpatia razziale, quanto, piuttosto, da motivi di ordine pratico (si temeva un eccessivo impoverimento della mano d’opera impegnata nelle imprese).
Se risulta storicamente poco credibile che il Papa, impressionato dal caso olandese, si decise a non parlare, risulta, invece, sorprendente (ma non poi tanto visti i presupposti) che questa fiction si guardi bene dal citare, invece, il caso della Danimarca in cui le proteste dei vescovi aiutarono a creare quel movimento di opinione pubblica che contribuì a salvare oltre 7000 ebrei da morte certa. Dimostrazione che qualcosa poteva esser fatto per salvare gli ebrei, se solo lo si fosse voluto. Rappresaglie contro i vescovi ribelli: Nessuna!
La fiction gioca di sponda nel raccontare la vita di questo papa già ascritto nel coro dei beati. Ci racconta di una presunta lettera bruciata, ma “dimentica” di raccontare che uno dei primi atti del pontefice appena salito al soglio fu quello di archiviare un’enciclica del suo predecessore, Pio XI, Humani generis unitas nella quale veniva operata un’aperta condanna delle leggi razziali. Tale enciclica è famosa con l’appellativo di Enciclica Nascosta.
Viceversa la fiction dedica un intero ed intenso flash-back ad un’altra enciclica (Mit brennenger Sorde) che Pacelli, allora non ancora papa, fece leggere da tutti i pulpiti delle chiese tedesche, tralasciando di riferire che tale enciclica non riguardava questioni razziali, ma partiva dalla considerazione che il governo tedesco stava, col suo neopaganesimo, violando non pochi elementi del Concordato tra Stato e Chiesa Cattolica.
Il fatto è che la fiction presentata a cavallo di Ognissanti (e fortunatamente non nei pressi della Giornata della Memoria) vuole spacciarci il ritratto di un Papa sollecito nei confronti dei fratelli ebrei e che, addirittura riuscì, grazie ad azioni nascoste e per lo più maturate nei corridoi, a fermare le deportazioni dal Ghetto di Roma. Lo stesso Papa che non ebbe nulla da ridire quando, nello stesso 1942 dell’Olanda che tanto lo impressionò, la Chiesa slovacca pubblicò una lettera pastorale che, sostanzialmente, appoggiava il disegno eliminazionista del Reich. Lo stesso Papa che, obtorto collo, vedeva nel Reich soprattutto l’unico baluardo per fermare l’avanzata bolscevica in Europa e, quindi, stette zitto perché l’orrore comunista gli sembrava più brutto di Auschwitz.
La Storia, si sa, è fatta di contrasti e di infinite sfumature di grigi. I santini sono, invece, costruiti di ampie campate di bianchi e di neri.
Il Pacelli di questa fiction è un Cristo nel Golgota della Storia che accetta il fardello del biasimo di chi verrà dopo perché sa che la sua “non azione” salva delle vite. La sua convinzione non viene mai messa in seria discussione. La sua scelta è Santa anche laddove noi, più fallibili mortali, non riusciamo a scorgere barlume di santità.
In croce dall’inizio alla fine, il personaggio non evolve e non matura consapevolezze, come gli ebrei che popolano la storia parallela di amore e morte che controcanta il dolore del papa (con una Matronardi sempre fuori tono ed un più interessante Foschi).
Resta parallela, almeno nella prima puntata, come fu in effetti nella Storia vera, mentre nella seconda ci si profila un più mosso intreccio colla storia del progetto mai attuato di rapimento del papa e con l’aiuto di non poche istituzioni ecclasiastiche che diedero asilo ad ebrei fuggiaschi che certo ci furono, ma tardivi. Perché, per quanti specchi si voglia scalare, la Chiesa cattolica fece poco per salvare vite umane.
E qualche volta contribuì alla loro cancellazione. Come aveva fatto nei secoli addietro nei tanti pogrom più o meno pilotati che, inutile negarlo, costituirono il modello dell’intera Shoah che ebbe il solo “merito” di spostare la questione dal versante religioso a quello razziale.
Anzi, forse la Chiesa Cattolica non prese posizione certa sulla Shoah per via del suo stesso passato. Forse non poteva rimproverare ai tedeschi di star facendo quello che lei stessa aveva avvallato per quasi due millenni. Uno sterminio applicato solo con un poco meno di zelo.
