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FRANCESCO ROSI: IL SENSO DELLA PROFONDITA’

Pubblicato il 10 dicembre 2006 da Andrea Esposito


FRANCESCO ROSI: IL SENSO DELLA PROFONDITA'

L’XI Roma Film Festival si è ormai concluso, confermandosi nuovamente uno degli appuntamenti più interessanti della vita culturale della capitale. Al centro della rassegna, quest’anno, è stata l’opera di Francesco Rosi, di cui il Festival ha curato un’esauriente retrospettiva. Cogliamo quest’occasione per riflettere ancora una volta sulla peculiarità e sulla profonda rilevanza del personaggio di Rosi nel panorama del nostro cinema.

Si è sempre parlato di Rosi come di un cineasta di denuncia, e un’analisi della sua opera non può non porre l’accento sulla sua curiosità per il potere e i meccanismi di questo; ma è necessario concentrarsi sulla natura di questa sua posizione. Il cinema di Rosi sembra tendere più ad un’aggregazione che ad una scissione. Ovvero, la sua analisi non punta a creare durature dicotomie della realtà (bene-male, buoni-cattivi), ma piuttosto anela ad una comprensione dell’Altro e ad una coincidenza degli opposti. E’ ravvisabile una volontà di capire la realtà nei suoi meccanismi più profondi, più forte ancora di una preventiva denuncia del male e del potere. Il desiderio di andare dietro alle cose e allo stesso tempo di analizzarle col più puro degli intenti critici.
Si può dunque capire che l’impegno politico costante che ci affascina in Rosi prende forma da un particolare amore per la verità e per la necessità morale di questa. Per questo, la posizione di Rosi è peculiare, né al di sopra delle parti, né semplice portabandiera di movimenti e ideologie. Un indagatore, che ha fatto del dubbio metodico la strategia principale della sua messa in scena filmica. E’ il movimento di questa ricerca che struttura e caratterizza il discorso artistico di Rosi, perchè l’assunto dei suoi film "non sta nell’inseguimento di una verità oggettiva sempre sfuggente, bensì nella messa in atto della ricerca della verità” (Jean Gili). Così, la denuncia nasce dalla stessa interpretazione della realtà, perché, come dice lo stesso Rosi, “interpretazione significa scelta, taglio, posizione morale nei confronti dei fatti.”
L’impegno è prima di tutto una distanza, quella scaturita dalla “riflessione della ragione” (Giacci). La lucidità del discorso di Rosi si concretizza così alla luce della ricerca dello spazio necessario ad attuare questa riflessione. Così, lo stile pospone le sue esigenze, e si adegua al soggetto, non il contrario: la coerenza di Rosi è infatti contenutistica, tematica ancora prima che formale, per certi versi ancora più forte di quella stilistica: egli tesse un discorso unico che parte da La sfida, procede con Salvatore Giuliano, passa per Le mani sulla città e arriva a Uomini contro, Cristo si è fermato a Eboli, La tregua. Un unico ragionamento, strutturato sempre dalla stessa volontà di rendere evidente il marchingegno del potere al di là dei suoi allestimenti, nei suoi aspetti più complessi e in quelli più sciaguratamente semplici. Allora diventa esemplare la forma del mosaico, che Rosi adotta per raccontare le vite dei suoi personaggi più difficili e rilevanti.
In Rosi, infatti, il cuore del problema è sempre visto da diverse prospettive. La forma ottimale per tenere i fili di questi sguardi incrociati sembra quella della biografia intesa come tessitura su cui sviluppare un affresco composito ed immenso del mondo. Come dice lo stesso Rosi, “se uno vuole rappresentare i problemi e la loro dinamica, in un contesto sociale, economico e politico di un paese, uno dei modi è quello di prendere dei personaggi che hanno rappresentato questo mondo, lo hanno determinato e ne sono stati magari espulsi tragicamente. Indagare intorno a questi personaggi e fare in modo che questa cronaca diventi un elemento di verità e piano piano si trasformi in storia. Giuliano, Mattei, Luciano, sono dei pretesti per un’analisi globale del mondo. Sono delle cartine di tornasole.”

Rosi non cede a unilateralismi né a manicheismi; anche quando rappresenta fenomeni su cui ha una posizione fin troppo chiara (si guardi al feroce antimilitarismo di Uomini contro), in realtà è ravvisabile una profondità d’analisi assolutamente non univoca. Non abbandona il suo “occhio vigile di etnografo” (Scorsese) e punta a rappresentare l’anima più complessa e profonda delle cose. Nella tensione a questa profondità, il nocciolo dell’intera indagine resta nascosto, serrato nella complessità, invisibile e indecifrabile nei suoi aspetti più sotterranei. Rosi si fa architetto di un sistema perso nelle sue diramazioni, un mosaico di cui sfugge la figura d’insieme.
Solo due forze, articolate in una diade, sembrano emergere da quel nucleo oscuro in cui il rigore dell’analisi è costretto a perdersi: il potere e il dolore causato da questo potere.
Il potere trova la sua espressione più efficace probabilmente nel ramificarsi estremo di quel mosaico di cui parlavamo prima: i ritratti delle figure di Mattei, Luciano, Giuliano, diventano la parte visibile del potere, il pretesto per il racconto di questo. L’intricato intrecciarsi di prospettive e di suggestioni (essenziale diventa il non detto, il segreto che non viene svelato) mantiene così invisibile il suo nucleo interno, la sua radice quasi ultraterrena, mostrandone allo stesso tempo appendici e meccanismi. Non a caso Rosi parla del potere nei termini di un ordigno, “che semina veleno, distruzione, morte”.
Il potere è meccanismo umano ed ultra-umano che schiaccia anche chi crede di possederlo. Come il potere è radicato nel mondo, al di sopra dell’individuo, così il dolore diventa l’anima radicata e profonda dell’uomo, la sua espressione atavica di relazione con la realtà: Rosi parte così alla ricerca di un luogo ancestrale, ipotetico, dove trova spazio la forma più pura di questa sofferenza, “dove il male non è morale, ma un dolore terrestre che sta sempre nelle cose…”(Cristo si è fermato a Eboli). In questo luogo, l’unico atteggiamento possibile è quello di una profonda compassione, di una pietà per la miseria umana da cui scaturisce la comprensione e l’integrazione in luogo della divisione di cui parlavamo all’inizio. E questo luogo è scavato nei paesaggi del Sud, quel meridione che in Rosi diventa “spazio contemporaneamente reale e immaginario che riassume il mondo.”(Ciment)

Tutte le citazioni sono tratte da Francesco Rosi. I mosaici della ragione, di Vittorio Giacci e Adriano Pintaldi.


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