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Fratelli d’Italia e il cinema di Claudio Giovannesi

Pubblicato il 6 maggio 2010 da Edoardo Zaccagnini


Fratelli d'Italia e il cinema di Claudio Giovannesi

Una scuola inquadrata dall’esterno, e dal basso: l’istituto "Toscanelli" di Ostia. Voci di ragazzini che sembrano romani, ma che romani non sono. O almeno non tutti, e almeno non del tutto. “Se stamo a rilassà i muscoli, pressorè”, sghignazzano alcuni di loro, sicuri e a proprio agio, mentre giocano a tresette in aula. Vestiti, quasi tutti, come la maggior parte dei ragazzi di periferia di quell’età. Quindici, sedici, diciassette anni. Poca identità e tantissima energia, con felpe colorate e giacchetti di pelliccia finta sul collo. Occhiali da sole, tuta e discoteca, persino di mattina. Per molti di loro sala giochi, casco slacciato e parchetto del quartiere. Sciarpette della Roma a salutare una vita che non c’è più, ping pong sui banchi della scuola e tanto internet, ipod e telefonino sempre addosso, sempre acceso, strapieno di canzoni e impicci vari. Per Masha no, tecnologia a parte. Bielorussa di nascita, capelli biondi e lineamenti delicati. Occhi chiari, malinconia, dolcezza e una famiglia italiana. Più o meno diciotto anni e un fidanzato poco più grande di lei. Italiano, tranquillo e disponibile. Per Masha la paura di affrontare il proprio passato. Per Alin, invece, rumeno e ribelle, di anni diciassette, c’è una vita divisa tra la scuola e il tempo libero, tra gli amici connazionali e i difficili rapporti coi compagni di classe italiani. E poi c’è Nader, che di anni ne ha sedici, esuberante ed ingestibile, ingabbiato, tra le regole delle mura familiari, arabe e rispettosissime della propria tradizione, e gli iniviti dell’esterno occidentale, luccicante di pischelle, comitive, calcio e divertimento.

Un pischello, intatto, ha scritto sul muro un verso di Renato Zero: diamante lei di rara bellezza; un altro prende a prestito Vasco Rossi per completare l’esegesi di Miserere, fatta ascoltare in classe da una delle insegnanti della scuola. Affrontate dagli alunni (da Masha no) senza alcun timore, accusate, da meno di un metro, con il cappellino americano appena appoggiato sulla testa, di mettere note a buffo, di venire a scuola non per insegnare, ma per perseguitare gli scolari. E mentre i ragazzi rumeni/romani accompagnano il tempo libero con un rap nella loro lingua, parte l’inno italiano cantato con fierezza nell’ora di buco, anche se nessuno ha capito ancora cosa voglia dire quel testo così strano.

Una generazione intera si muove nel bel documentario di Claudio Giovannesi, Fratelli d’Italia, multietnica e con un linguaggio proprio: "Io te rispetto proprio a te!, "capito quello che te vojo dì", "Nun t’accollà", "Mo t’a dò ’na pizza ‘n faccia.." - si sente dire nel film - "Se vola ’na pizza sticazzi, semo ’na cifra, hai visto quanta gente semo oggi?" Adolescenza di periferia contemporanea, sull’altra sponda del tevere, ed anche più in là, rispetto alle favole borghesi di Moccia. Adolescenza rasata, lontana e incompatibile con le biondine magre di Amore 14. Qui realtà popolare, complessità 16, diremmo, cucciola e incosciente, violenta e spaurita, confusa, multietnica, integrata e razzista nello stesso tempo. Perchè, al di là della coscienza e degli ideali, è di moda così, specialmente a certe basse latitudini dell’organizzazione sociale (non solo) italiana. Una generazione in fieri, quella del film, pedinata con pudore dall’autore, sconvolgente e tenera come l’adolescenza risulta sempre agli occhi dei più grandi. Un’adolescenza particolare, da prendere con le molle e con le buone anche quando dice cose tremende e inaccettabili. Come la storia del rumeno ubriaco che avrebbe rotto lo specchietto del motorino ad un uno dei ragazzi. Una storia che sarebbe andata a finire in questo modo: "J’ho dato ’na caracca e l’ho buttato per tera, poi j’ ho detto nun te meno perché me fai pena". Risponde Nader, che è arabo, anche se è nato in Italia: "Oggi un negro di merda sì è sentito male a Re di Roma, poi dice perché nun bisogna esse fascisti". Peccato che Nader stesso sia di colore: "Ma te sei negro, porco due...", gli sorride l’amico, "Si ma quello è negro de più!". "C’hai ragione: l’arabi me stanno più simpatici, quelli che brucerei so l’artri!". "Quelli che brucerei io - conclude Nader - so l’ebrei, a’ rogo! Nazismo, proprio.." Lasciamo stare il rimprovero, l’avrà già fatto qualcun altro, almeno lo speriamo, e sottolineamo la significativa contraddizione che regna in questo dialogo al limite dell’assurdo.

E’ una fotografia nitida e precisa, quella che il regista scatta girando le tre storie di questo asciutto documentario di ascolto. Ci sono momenti forti, che Giovannesi lascia sedimentare e metabolizzare inserendo sempre una pausa musicale, qualche istante di malinconico lirismo dopo l’apice, sorretto da immagini di valore. Una pozzanghera su cui si specchiano i palazzi, una rete nel parco che ingabbia le giovani vite dei protagonisti.

Fratelli d’Italia è un lavoro in cui la telecamera sembra spesso non esserci, sparire di fronte alle contraddizioni e al fluire della vita inarrestabile e scomposta dei protagonisti. Tre vite colte in un momento di crescita e di presa di coscienza. Alla vigilia di un obbligato cambiamento, di una scelta nuova, inaspettata, di un primo, infinito approfondimento personale. L’occhio digitale inquadra tre vite italiane di origine straniera, perfettamente inserite in un constesto storico e sociale. Fratelli d’Italia fonde il tema dell’immigrazione a quello dell’Identità, un pò come fa un altro giovane film italiano di questo periodo: Good Morning Aman, di Claudio Noce. "Ho scelto come protagonisti tre adolescenti di origine straniera - spiega Giovannesi nelle note di regia - ma le loro storie hanno come tema l’identità, raccontata nel privilegio della quotidianità, nell’osservazione dei loro rapporti interpersonali e dei loro conflitti".

Ma c’è di più in Fratelli d’Italia, c’è anche il racconto delle famiglie di queste giovani vite immigrate. Non sono pochi i momenti del film in cui gli altri, gli stranieri adulti (giunti in Italia a formazione avvenuta) raccontano il proprio ostinato punto di vista. E lasciano il segno le loro dichiarazioni convinte, nette e definitive. "La nostra vita è completamente diversa dalla loro", dice il padre di Nader. Perchè per lui è molto più facile tenere le distanze, visto che ha necessità esistenziali e di integrazione diverse da quelle di suo figlio. Che al contrario di lui ha tutta la vita davanti, e non ha ancora una cultura formata. Nader sente enorme il conflitto tra la propria vita e la propria "raccontata" tradizione. A casa comandano una religione e delle regole diverse, ma fuori c’è un altro mondo, un altro modello a cui bisogna obbedire. Le ragazze italiane, per la mamma di Nader, sono un problema, e colpisce il suo secco commento riferito agli italiani: "Loro non sono addatti a noi e noi non siamo adatti a loro, anche se io ho profondo rispetto per loro. Non metterò piede in casa di Nader se lui sposerà una donna italiana. Abbiamo tradizioni diverse. Da noi una donna sopporta tutto di suo marito: lui può urlare, fare qualsiasi cosa". E’ una frase forte, espressa con calore e normalità da una donna sensibile e intelligente. Sua figlia porta un altro punto di vista, ma lo esprime sentendo il dolore della rottura. Sentiamo ancora giovannesi: "Mi sono accorto che l’integrazione, anche quando è fortemente desiderata, non sempre è realizzabile: è un percorso di esperienza e di formazione che non ha termine, e che necessita una difficile e responsabile ridefinizione dell’identità, in uguale misura, in entrambe le parti, quella autoctona e quella straniera.

La telecamera leggera e attenta di Giovannesi si ferma su uno di questi giovanissimi "fratelli" italiani di oggi. Il primo. Una didascalia bianca su sfondo nero traccia un nome: Alin. Musica sbarazzina e leggermente malinconica. Alin, capelli cortissimi, occhi accesi, pelle di bambino e di adulto insieme, aggiusta un motorino con un suo amico. All’aperto, all’imbrunire, senza più quel romanesco popolare e adolescente sentito fino a poco prima in quella sc(u)ola che è luogo ricorrente, isotopia di Fratelli d’Italia, insieme alla strada, alla scala dell’edificio scolastico e alle case umili di un popolo italiano contemporaneo che guarda Verissimo in tv, mentre si tiene ben strette le proprie tradizioni culturali. Ma c’è anche Ostia tra i protagonisti di questo lavoro, la cui identità, secondo Giovannesi, è molto più multietnica rispetto a quella della vicinissima capitale, se si escludono alcuni quartieri del centro storico. Ed anche il cinema italiano, già da tempo, si è accorto e fatto certificato di quanto appena asserito. Se prendiamo alcuni film italiani recenti notiamo l’ambientazione sul litorale laziale unita al tema dell’immigrazione: due film importanti per sintetizzare il concetto: Saimir, Francesco Munzi, Alza la testa, Alessandro Angelini.

Il motorino di Alin è perfetto. Nero, lucido, modificato. Mezzo di trasporto e primo segno libertà, strumento di identità. Parlano rumeno, Alin e il suo amico, mentre già sognano altro, come i coetanei italiani del quartiere/città del film. Forse con più rabbia di loro: una macchina potente, con la musica, una golf, magari, una mercedes. "E poi, sai quanta figa viene con te?” Ma intanto, in questo affannoso presente di rabbia, frenesia e disordinata ricerca, Alin sfreccia col suo motorino su un lungomare fuori stagione. Quotidiano, nuvoloso, Ostia. Palazzi alti, mare grigio, sempre a distanza, reti metalliche e ringhiere. Una professoressa di italiano conosce bene la stagione della vita che è la tarda adolescenza, quell’attimo inquieto che precede la gioventù. Parla quasi alla pari coi suoi alunni, mentre Alin continua a rumorosamente a sfrecciare senza andare da nessuna parte. Paesaggi, musica, telecamera ferma ad inquadrare il paesaggio di Alin. Si parla di lui, a scuola, che è rumeno, e che sta con una ragazza che ha una storia simile alla sua. “Sta scola è piena de rumeni”, ricordano gli alunni alla professoressa, ed anche la ragazza di Alin veste coatto alla romana, imbacuccata dentro un giubbotto uguale a mille altri, il trucco e lo slang della sua generazione: “Un po’ coatti semo tutti, pressorè”, precisa un altro compagno di Alin, poco prima che questi inizi a dirci qualcosa di sé, e poco prima che squilli il suo cellulare ed egli torni rapidamente alla sua lingua rumena, all’altra parte di un presente particolare ma sempre più comune, all’altra sponda di una storia che ci interessa perchè è quella di un presente, nostro, che ancora fatichiamo a conoscere, perchè rappresentato parzialmente e strumentalmente dai media tenuti per le palle dalla politica. La faccia, il corpo e i pensieri di Alin, già appartenenti ad un lavoro di Giovannesi precedente a questo, Welcome Bucarest, 2007 diventano il primo episodio dell’ intenso Fratelli d’Italia: un viaggio lento alla ricerca dei personaggi, alla scoperta di paradigmi, ma prima ancora di storie, di verità e di contraddizioni.

Fratelli d’Italia dura novanta minuti fatti di pazienza, passione e riuscita relazione. Lo ha girato un ragazzo di trentuno anni, con la stessa sensibilità che aveva dimostrato nel film con cui aveva esordito, nemmeno un anno fa, nel lungometraggio di finzione: La casa sulle nuvole. Un lavoro, quello, nato dall’idea di fare qualcosa sul Marocco, all’inizio per un documentario sugli italiani che vivono là: "Scrissi questo film dopo aver girato nel 2005 il documentario Appunti per un viaggio in Marocco, reportage sulla comunità italiana a Marrakech", disse Giovannesi, allora, che col viaggio e con l’incontro scoprì un altro pezzo del suo film: "Lì ci sono due tipologie di italiani: gli imprenditori in fuga, che sperano di fare in Marocco il colpaccio, e gli artisti". Ma poi la cosa prese un’altra piega, il documentario diventò un film di finzione, anche se i sopralluoghi sul territorio rimasero, come puntelli su cui legare una sceneggiatura parlante e rispettosa del pubblico. Ci fu un lungo lavoro di preparazione, gestito anche in quel caso con cura e pazienza, e con la collaborazione di un valido gruppo di co-autori, tutti usciti dal centro sperimentale di cinematografia, tutti compagni di corso di Claudio Giovannesi. Francesco Apice, Matteo Berdini, Giuseppe Treppiccione, (che ha montato anche Fratelli d’Italia), uniti in un film che già poneva uno sguardo efficace sull’altro. Del resto, non è un caso che il regista preferito di Giovannesi sia proprio Matteo Garrone, uno che con la realtà, due conti con calma se li è fatti spesso prima di mettersi a riprendere. Ripensiamo a Terra di mezzo, Ospiti, Estate Romana, e non solo. La casa sulle nuvole era un viaggio in una terra e in una cultura in movimento, documentata al di là delle ansie e delle speranze (disilluse o meno) di una generazione italiana che si accorse (in tempo) dell’impossibilità che il nostro paese offriva alle proprie aspirazioni. Il film osservava un altro paese, con pudore e sguardo sicuro, senza pretendere di offrire spiegazioni o analisi definitive. Poi concedeva spazio all’eterno ed ultraletterario rapporto tra padri e figli. “Il mio film è ambientato in un contesto preciso, ma racconta anche il percorso interiore di due fratelli alla ricerca del padre e anche di una relazione profonda fra loro», spiegava regista, precisando meglio la particolarità di quel conflitto: «Noi trentenni dobbiamo fare i conti con padri poco cresciuti, poco autorevoli e per niente autoritari. Però in fondo molto simpatici. Ho tanti amici di cinquant’anni che hanno vissuto di più, hanno amato di più e si sono anche drogati di più». Il riferimento del film andava a quelle figure anni ’70 che hanno scelto di non omologarsi alle convenzioni sociali e ne hanno pagato, a modo loro, il prezzo. E’ su questo schema che Claudio Giovannesi costruiva il personaggio di Dario (Emilio Bonucci), che aveva abbandonato da quindici anni i suoi due figli per andare nella comunità di artisti di Marrakech. I figli partivano e lo trovavano là, perso nelle sue fragilità, nelle sue convinzioni incallite, e nei suoi fallimenti da antieroe della commedia all’italiana. Ma i due figli capivano l’inutilità di un giudizio morale e sceglievano di perdonare il genitore, cogliendo, col loro viaggio formativo, l’occasione di incontrare se stessi, neanche loro, da buoni esseri umani, liberi dall’errore e dalla debolezza. Il road movie serviva a loro per diventare migliori e a noi, spettatori incuriositi dall’equilibrio del film, per conoscere un paesaggio culturale nuovo. La casa sulle nuvole era una storia leggera, una commedia realistica con situazioni interessanti, che, lontana da eccessive ambizioni, offriva un prodotto degno di essere guardato.

E’ colloquiale Giovannesi. Semplice, chiaro, comunicativo ma deciso. E’ nato a Roma nel 1978, e si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ha lavorato per Radio RAI e ha pubblicato recensioni cinematografiche. Ha collaborato con Blob, (2001 al 2004) e suona la chitarra non solo per ammazzare il tempo e la malinconia. Scrive le musiche per spettacoli teatrali e per i suoi lavori di regia.

Fratelli d’Italia, è passato (ed ha ottenuto una menzione speciale) all’ultimo Festival del film di Roma, sezione extra. Ma prima del 2009 Claudio Giovannesi aveva già scritto e diretto diversi cortometraggi: da Ultimo Taglio a Il Cellulare entrambi del 2000; da Caino (2002) a La Banda, (2003); daI Gabbiani (2004) a L’Uomo Uccello; fino a L’Uomo del Sottosuolo, (2005) e Welcome Bucarest, (2007), che è poi il primo terzo di Fratelli d’Italia, il documentario nato da una collaborazione (iniziata nel 2007) con l’Istitituto Tecnico Commerciale “Paolo Toscanelli” di Ostia. Un istituto in cui quasi il trenta per cento degli studenti è di origine non italiana. La casa di produzione del film (Il Labirinto) sta definendo con una società di distribuzione il tipo di uscita. Al momento è probabile la diffusione televisiva ed editoriale, ma non è esclusa un’uscita in sala.

Fratelli d’Italia racconta tre storie di ragazzi arrivati in Italia da paesi lontani: Alin, Masha e Nader: Romania, Bielorussia, ed Egitto, anche se Nader è nato in Italia. Alin fatica a relazionarsi con gli italiani, e questo gli crea un conflitto interiore che blocca il suo desiderio di comunicazione. Si difende isolandosi ed aggredendo, fuggendo e ritornando indietro, tra la sicurezza degli amici rumeni, e la inafferabile intuizione che nell’incontro con l’altro stia uno dei segreti della vita. E’ però confortante il dialogo finale tra lui e la sua insegnante di italiano. "Se ogni volta che apro bocca - ribatte la donna - tu dici perché proprio a me? Allora io ti salto, ma se ti salto, io e te non facciamo più quello che dobbiamo fare. Tu non sei facile ma a me quelli facili non piacciono!" Alin sorride e forse è un giorno importante. La sua storia e la sua conoscenza, però, si fermano in una discoteca ai margini, di sera, tra una vodka e una red bull, con la musica commerciale e la house che batte forte. Il regista non forza la mano, mostra quanto serve, il disagio di un ragazzo diverso da altri, ma come gli altri impegnato a diventare grande. Ritorneremo alla sua storia soltanto nella didascalia finale, con un piccolo ma importante segnale positivo. Dopo Alin c’è Masha, anche lei va al Toscanelli, e sembra più grande degli anni che ha. Si alternano, nei primi istanti del capitolo, le voci di una stessa ragazza che parla due lingue. E’ italiana a tutti gli effetti, perchè è stata adottata quando aveva quattro anni, ma parla al telefono con il fratello di sangue che vive in Bielorussia. Masha a scuola va bene, e porta tanto rispetto agli insegnanti. Ma è preoccupata perché deve partire per il suo paese d’origine, visto che suo fratello l’ha ritrovata dopo molto tempo. Ha una normale famiglia italiana e racconta la sua storia di dolore. Suo padre in prigione, e sua madre sempre fuori di casa. Una volta Masha chiese aiuto ai vicini, perché la sorellina più piccola, di soltanto uno e mezzo, aveva un dito sanguinante. Masha aveva quattro anni e quando la mamma tornò la picchiò con la cintura. Oggi Masha ha paura di affrontare questa dolorosa esperienza, e sulla spiaggia di Ostia lascia che il regista vada a nero e fermi il suo racconto. I conti con il proprio passato e con la propria origine sono ancora là, come dice la didascalia finale, da andare ad incontrare chissà quando. E poi troviamo Nader, coi capelli cortissimi ed una energia esagerata. La musica del regista ci prepara alla conoscenza di un personaggio vulcanico e inarrestabile, che usa l’arabo solo per sbroccare, che è il terrore degli insegnanti, che mette i bicattini a scuola e che ha amici e pischella italianissimi. Le facce dei genitori di Nader sono tonde e belle, ma incapaci di modificare le convinzioni del loro giovane e bel figliolo. Per la loro religione è vietato stare con una ragazza come si fa in Italia, e la mamma di Nader ha paura che con il suo comportamento, il figlio maschio rovini anche le sorelle. Ma Nader non ha nessuna paura dei genitori, litiga con loro ad ogni occasione, approfittando della loro testarda morbidezza. Per ora accetta mal volentieri i riti della sua cultura, e mentre si mette le sue lenti a contatto azzurre, la madre è di là che piange, mentre prega. Anche Nader va alla moschea a pregare, ma poi esce senza commentare, e quando un amico immigrato gli racconta il modo drammatico in cui è arrivato qui (tre giorni di mare, si vede solo il cielo) Nader rimane in silenzio, con la sua storia e il suo conflitto da risolvere, le sue orgini e la sua cultura italiana, ma anche un percorso di crescita tutto da fare, tutto da impostare.

Il cinema di Claudio Giovannesi ha mostrato, finora, un vivissimo interesse per la relazione tra razze, per l’incontro tra alterità secolari, messe in rapporto forzato dalla Storia. Oggi, e non è detto che sia un fatto negativo, anzi, secondo il regista è esattamente il contrario, anche se l’Italia non l’ha ancora minimamente compreso: "Ho girato Fratelli d’Italia – dice Giovannesi - perché l’Italia, al mio sguardo, è un paese che nel 2009 non riesce ancora ad avere un’identità multietnica, si nasconde dietro un’illusione di orgoglio nazionale e non vuole conoscere il valore positivo della multi cultura. Io considero fondamentale ed emozionante ogni forma di melting pot: il crogiolo, l’amalgama, all’interno di una società di esseri umani, delle etnie, delle culture e delle religioni. La popolazione che chiamiamo immigrata è in realtà il nostro nuovo tessuto sociale, una ricchezza che va accolta nella sua complessità e nelle sue inesauribili contraddizioni.

Fratelli d’Italia apre la porta di un mondo mal conosciuto, anche se incrociato tutti i giorni per mille attimi isolati e impermeabili. Quel mondo piegato agli interessi di una tv al servizio dei padroni, che non interessa ad un documentario intenzionato a guardare in faccia il presente e che vuole raccontare in un altro modo un’Italia multietnica. Prima di tutto osservandola con attenzione. L’Italia di Claudio Giovannesi non è "uno spazio privato che va ripartito tra italiani e stranieri".


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