GodArt, vivere di cinema jusqu au bout

Se il sonno della ragione genera mostri, le grandi opere dell’ ingegno producono progresso.
Forse ciò è vero se lo intendiamo, non nel senso tradizionale (e sottolineiamo Forse) bensì se identifichiamo il termine con il concetto di evoluzione della specie umana e della sua capacità di espressione. I fili, che si dipanano e prendono forma da quando, nel 1960, J. L. Godard con A bout de souffle da il là a quell’irriverente e rivoluzionario movimento che prende il nome di Nouvelle Vague, sono destinati a cambiare il concetto di cinema così come lo si era inteso, fino a quel momento.
Il cinema si spoglia, si libera delle pesanti strutture e sovrastrutture nelle quali era rimasto incastrato (anche, ma non solo, a causa di un’idea egemonicamente Hollywoodiana) e si libra leggero e confuso portando caos e sconquasso in giro per l’ Europa.
Godard, leggendario regista misogino (Jane Fonda dopo l’esperienza di Tuot va bien, 1972, lo definirà come un uomo orribile esprimendo il desiderio di non vederlo mai più) straordinario creatore di audiovisivi; di opere fatte di suoni, immagini e tratti grafici che con il tempo si fanno sempre più scure cronache dei tempi bui che stiamo vivendo. Straordinario e raro interprete della sua epoca, come già Roberto Rossellini (non a caso padre putativo dei giovani critici francesi, prima di lui), anche quest’anno si prende il suo piccolo spazio al Festival di Cannes con un nuovo irriverente capitolo, Film Socialism, di una filmografia sempre più criptica e sprezzante del pubblico e della critica. Eppure tutto era già stato scritto, cinquanta anni fa. Meno estremo forse nelle forme, meno ostico nella grammatica, A bout de soufle (Fino all’ ultimo respiro) si impone ancora oggi per la sua eterea inconsistenza rivoluzionaria. Per quel suo essere l’irreplicabile figlio di un momento, di una intuizione, di una sensazione, di creature legittime di un padre genio. "Fragile opera prima" in bianco e nero; esile come la figura androgina di Jean Seberg (Patrizia Franchini) e bizzarra come il volto Picassiano di un giovanissimo Jean Paul Belmondo (Michel Poiccard). E ancora bugiarda, scanzonata e disperata espressione della voglia di fare, creare, lasciare traccia tangibile di sé di una generazione che sembra anni luce (e non solo mezzo secolo) lontana da quella attuale. Oggi, più rivoluzionario di ieri: in contrasto con questi tempi oscuri che atrofizzano la mente e il pensiero di una generazione pigra che si lascia vivere e abbattere a colpi di polpettoni mediatici predigeriti. E non c’è da stupirsi se Godard si sia, negli anni “imburberito”, prendendo la forma di una stufa tartaruga, irritata dalle domande banali dei giornalisti e dei critici, stanca e delusa dalla sterilità dei tempi moderni. Come era già accaduto una volta, per il cinema italiano, succede che il padre sia meno convenzionale e bigotto dei figli. Meno spaventato dalle infinite possibilità del mezzo visivo, più scopritore e indagatore delle sue inesplorate profondità. Mentre il cinema sembra aggrapparsi ad una idea antica di se stesso, ad una concezione troppo tradizionale senza avere però lo stile e la classe del vecchio cinema, Godard ha continuato a sperimentare, a indagare lasciando indietro molti dei più giovani. Un soffio di vento anima ancora la sua ricerca, quella disperata della vita e del cinema che si identificano tra loro, vissuti jusqu au bout, mettendo continuamente in gioco tutto.

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