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Guai se non parlano d’amore!

Pubblicato il 2 maggio 2007 da Alessandro Izzi


Guai se non parlano d'amore!

Ci credevano davvero i distributori di Mio fratello e figlio unico. Confidavano così tanto nelle possibilità commerciali del loro ultimo nato che non si sono fatti problemi a stampare la pellicola in un numero spropositato di copie sperando, poi, in una raccolta a tappeto di introiti magari chiusa nel solo spazio del primo fine settimana. Ma non ci credevano certo per la presenza alla regia di un autore di solido mestiere come Daniele Luchetti che tempo fa ci aveva regalato pellicole frizzanti come La scuola. Né per il fatto che il romanzo da cui il film traeva ispirazione era opera che toccava con mano le contraddizioni di un intero decennio tutto italiano e, quindi, prometteva quelle scintille che poi non ci sono state.
Non era la possibile vocazione politica dell’opera quella che influenzava i pronostici degli incassi ai botteghini, né la vaga aura scandalistica che poteva derivare da una storia tutta fatta di pestaggi, di violenze spesso gratuite e di adolescenti con problemi veri.
Chi ha investito sul film non pensava di avere tra le mani una delle più prove più importanti e convincenti di Elio Germano uno degli attori oggi più quotati e promettenti. No! L’unica molla al tam tam mediatico che ha accompagnato, lanciandolo, il film, l’unica certezza che ha fatto mettere la mano al portafogli (e non sulla coscienza) è stata una ed una sola: la presenza di Riccardo Scamarcio.
E cuoce ancora la delusione di non essere riusciti a fare di Mio fratello è figlio unico un altro Notte prima degli esami o un succedaneo sicuro di Manuale d’amore in un solo esclusivo capitolo. Fa ancora più male perché porta come conseguenza l’incertezza: se non basta un divo a fare il successo di un film a cosa rivolgersi, allora?
Certo il film di Luchetti non è poi andato male nelle sale. Un po’ di polverone il buon Riccardo (che è persona intelligente finita in un ingranaggio malevolo) l’ha sollevato. E capitava, i primi giorni di programmazione, di trovare nelle sale dei cinema che proiettavano il film, qualche ragazzina spaurita (poco più che bambina) che era entrata in sala attratta solo dagli occhi del suo idolo che condividevano mezza locandina con un altro, per lei, ignoto attore. Magari quella stessa bambina che tempo prima era corsa ad abbracciare il cartonato di Ho voglia di te sospirando d’un amore che non prova veramente, ma che le è dettato dalle riviste che occhieggiano in edicola. La stessa ragazzina che ora esce via, di sala, coi pop corn che non ha finito di mangiare esclamando che quello è il film più brutto che abbia mai visto pronta a dare il ‘la’ a quel passa parola negativo che presto affosserà il film sommerso dalle nuove uscite (Spider-Man è già pronto a mordere la fetta più grande della torta degli incassi).
Ma poi, proprio guardando quella ragazzina che esce di sala e che, coi suoi dieci anni appena, ha già lasciato le Barbie e si trucca sui banchi di scuola, ci viene da pensare con amarezza: ma è davvero a questo pubblico che si rivolgevano i distributori? È davvero su questi ragazzini pre universitari (con tutto che l’adolescenza sembra arrivare ormai alle soglie dei trent’anni) che si ripongono le speranze del nostro cinema malato e dolorante?
A guardare gli ultimi film di cassetta pare proprio di si. Perché i film di maggior richiamo, i vari Manuali d’amore (e anche i romanzi di Moccia vengono intesi ormai per tali) sono tutti improntati su un modello di marketing centrato prevalentemente non tanto sugli adolescenti, quanto sulle adolescenti.
Sono le lettrici di Cioè e di Teen Girls o di Teen choice o di Teen gossip o di 16 anni (infiniti titoli di riviste che come funghi sono ormai usciti dal sottobosco e si son fatte selve) ad essere le interlocutrici privilegiate del nostro marketing.
Guardiamolo bene: tutto il nuovo divismo è centrato su volti maschili. Riccardo Scamarcio guida una marcia cui van dietro anche Nicolas Vaporidis o De Angelis… giù giù fino a Costantino & Co.
Le donne che si affermano lo fanno in separata sede, ma sempre agganciate a figure maschili vincenti e di sostegno. Sono le spalle su cui piangere, le amiche sincere o gli oggetti del desiderio, sullo schermo, di quelli che restano i veri idoli. Carolina Crescentini entra con garbo in Notte prima degli esami oggi, ma è solo un prototipo di bellezza adatto al personaggio Vaporidis. Sarah Maestri conquista un affetto più sincero: è l’amica del bel ragazzo, innamorata dell’amico come la maggior parte delle teen agers. Funziona sullo schermo come oggetto di identificazione perché fa, nella storia, quello che le ragazze fanno in sala: guarda, desiderando.
Stesso dicasi per Laura Chiatti. Non è lei, ma ciò che fa nel film a far andare in visibilio le folle. Senza il lucchetto, senza la promessa dell’eterno amore sarebbe anche lei uno di quei tanti volti graziosi che presto si dimenticano dopo il primo passaggio.
Tutti maschere, i nuovi divi. Tutti personaggi di se stessi come il buon Muccino (Silvio) che di questa nuova ondata è stato, in fondo, un inconsapevole apripiste e che ora ripercorre il sentiero di Moccia con un altro manuale, un altro invito: Parlami d’amore.
Ed è proprio l’amore, a pensarci, che mancava in Mio fratello è figlio unico. Il gran peccato mortale: dell’affetto tra fratelli non gliene frega niente a nessuno. Ci vuole l’amore di coppia per far soldi al botteghino. L’afflato dell’innamoramento quando è ancora cosa piccola palpitante e generica (il primo capitolo del Manuale d’amore veronesiano). Poco importa che sia finto, poco importa che le ragazzine poi lo usino come pietra di paragone quando stanno coi loro ragazzini che non riescono, per questo, mai a reggere il confronto. E che resti fuori la quotidianità del volersi bene e che ogni SMS sia sempre dichiarazione di un amore eterno e imperituro, sia pure composto di frasi fatte.
Ma, e qui sta l’incaglio, quanto può andar lontano un cinema fatto e pensato solo per questo target di pubblico? Davvero pensiamo di poter salvare i magri salvadanai della nostra industria sul fuoco di paglia alimentato da ragazzi che, per quanti sforzi faccia la televisione, son comunque destinati a crescere?
Noi ci crediamo poco.



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