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Helena

Pubblicato il 21 luglio 2016 da Alessandro Izzi
VOTO:


Helena

Helena è una riservista dell’esercito del Reich incaricata di sorvegliare e portare in un campo di concentramento un gruppo di dissidenti politici.
Sul treno merci posto sotto la sua stretta supervisione e che deraglia proprio a inizio della narrazione, ci sono, però, solo bambini ebrei. Tra questi un solo sopravvissuto all’incidente che obbliga la donna soldato a scendere a patti con le emozioni di una possibile madre.
La dinamica messa in campo da Helena, corto di Nicola Sorcinelli che spezza un relativamente lungo silenzio del nostro cinema sulla questione Shoah (l’ultimo film di un certo rilievo è il poco visto Anita B. di Faenza, mentre in tv è stata meteora il passaggio di Max e Hèléne di Giacomo Battiato dell’anno scorso) è quella del rapporto ordine-caos. Una chiave assai ricorrente all’interno del nostro cinema che lega, secondo un dettame già manniano (quello del Doctor Faustus, per intenderci) il titanico bisogno di regole precise dell’ideologia nazista con la confusione di corpi, sangue ed escrementi dell’orrore dei Lager e dei campi di sterminio che ne è il riflesso demoniaco e, al tempo stesso, la conseguenza necessaria e (in)naturale.
Sicché il corto esemplifica il tema contrapponendo sin nelle prime inquadrature il discorso della protagonista ormai invecchiata che parla appunto dell’esigenza di ordine del regime e la scena della confusione di cadaveri al fuoco scuro dei focolai di incendio del disastro ferroviario appena consumatosi.
Ordine e disordine si incastrano l’uno nell’altro, il primo veicolato dal Logos di una bestemmia (l’uomo si sostituisce a Dio nella corsa a un’utopia costruita sulla morte dei più deboli) e il secondo fatto concreto dalleconseguenze alle azioni più nefaste.
L’orrore del Lager, prima ancora che si arrivi alle porte del campo di concentramento sta quindi nella logica luciferina dell’abominio razziale: il nazista è mostruoso angelo portatore di luce che apre però, con la sua bestemmia, prima di tutto le porte dell’inferno. La luce che dovrebbe portare conoscenza (e quindi ordine), brucia e consuma lasciandosi dietro solo cenere e strazio.
Di qui in poi Helena è il racconto del lento e travagliato percorso del soldato volto a ritrovare umanità e femminilità attraverso la protezione del bambino che andrebbe portato al forno crematorio (nel rispetto delle leggi del Reich), ma che è troppo simile a un figlio per essere mandato a morire.
Lodevolissimo nelle intenzioni narrative, ottimo sotto il versante dell’interpretazione, Helena resta è l’ultimo nato di una strategia retorica tutta italiana di raccontare la Shoah cui si aggiunge la scelta (assai felice) di lasciare l’orrore grande fuori dei confini dello schermo.
Del campo di sterminio, infatti, non vediamo se non la forma, dall’alto di una distanza d’aquila che lo rende terribile e pericoloso, ma kantianamente sublime. Di tutto l’orrore e il dolore che lì si consumarono (fedeli a un’idea di irrapresentabilità dell’orrore che discende dalle parole di Elie Wisel, recentemente scomparso e mai troppo compianto) non resta che un segno cinema: quello della cenere che cade gentilmente tra i rami degli alberi di un bosco indifferente (sineddoche che richiama direttamente una delle scene più celebri di Schindler’s list di Spielberg).
Scelte forti all’interno di un cinema, come il nostro, divenuto con il tempo quasi del tutto incapace di ragionare sulla realtà della Shoah in chiave autenticamente storica.
In Helena tutta la narrazione è fondata su un’esercitazione intrigante e intelligente di scavo dell’eventualità da un evento ormai riconosciuto anche se non più autenticamente studiato.
Il racconto diventa così archetipale. Una madre e un figlio che si ritrovano. Lo scontro manicheo tra bene e male di cui il primo è nell’italiano dello spettatore mentre il secondo è il tedesco freddo e contratto dell’Holocaust film più tradizionale e secondo una retorica di deresponsabilizzazione italiana dal cono d’ombra della Shoah che è legato alla retorica degli “italiani bravi gente” riconosciuta dalla più recente storiografia sull’argomento.
Privo di un bisogno di approfondimento storico forte sul contesto, il film muove quindi su topoi consolidati dal cinema e dai media: il bimbo ebreo con stella gialla al petto che sembra preso di peso dal rapporto Stroop di Varsavia, la divisa nazista, la donna impiccata nella casa (assai probabilmente una partigiana). Poco però sappiamo dello sfondo: dove siamo esattamente? Che campo è quello che vediamo di lontano? Il bimbo ebreo di che nazionalità è?
Elementi, questi, superflui ai fini del racconto esemplare che aspira all’universalità, ma che definiscono lo spazio di un buco nero della coscienza italiana sulla questione Shoah che dagli esordi arriva fino all’estremo astorico del campo di concentramento de La vita è bella.
Al di là delle strategie retoriche messe in campo, Helena resta un racconto forte e intenso, un bel ritratto di donna e un corto importante per continuare a raccontare un orrore che troppo tendiamo a voler dimenticare.

Tweeting: Un corto sulla Shoah, sulla resistenza e sul disperato bisogno di umanità anche nelle condizioni più terribili. Efficace ritratto di donna nei tempi di guerra.

Where to: Premio per la miglior interpretazione femminile al Festival Internazionale Visioni Corte.


(Helena); Regia: Nicola Sorcinelli; sceneggiatura: Alessandro Logli, Paolo Logli; fotografia: Francesco Di Pierro; montaggio: Nicola Sorcinelli; musica: Emanuele Bossi; interpreti: Sandra Ceccarelli; produzione: Hundred Dreams Production; origine: Italia, 2015; durata: 17’


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