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I magnifici sette

Pubblicato il 23 luglio 2002 da Alessandro Izzi


I magnifici sette

L’idea di base risale ad un vecchio film capolavoro di Kurosawa: I sette samurai con Toshiro Mifune. Si trattava di un’opera che affondava le radici del suo fascino segreto nella sua ricerca di una discrezione non canonica del ‘500 giapponese che riprendeva i canoni di una narrazione quasi western (il tema dell’accerchiamento, quello delle simpatiche canaglie fuorilegge che, proprio in virtù della loro posizione borderline, possono permettersi di salvare tante vite innocenti con sistemi ai limiti della legalità) aggiornandoli ai modi di un’epica storica spettacolare ed autoriale al tempo stesso. Non stupisce, quindi, dati questi preamboli, che il cinema americano non abbia tardato a riappropriarsi di una storia e di un modo di raccontarla che, in fin dei conti, gli apparteneva di diritto. Risultato: I magnifi sette di John Sturges. Al cambiamento necessario di temi e personaggi non corrispose, comunque, un cambiamento nello schema narrativo puro e semplice che rimase assolutamente inalterato nella sua dimensione archetipica incredibilmente semplice e (come, in fondo, per tutte le cose semplici) straordinariamente efficace. Tale schema prevede la contrapposizione violenta tra un gruppo di disperati e fuorilegge che non hanno, ormai, più nulla da perdere e un non meglio precisato gruppo di fuorilegge che minacciano, con le loro angherie, la popolazione di un povero avamposto civile nel selvaggio west. È la città il vero nucleo e la vera protagonista dell’intreccio, anche se a tutta prima, può apparire che i veri protagonisti siano i sette del titolo. È infatti la città, con la sua iniziale stratificazione sociale, con la sua larvale organizzazione capitalistica che promette una rampante economia espansionistica, ad attirare su di sé le mire dei malvagi di turno. Ed è sempre la città che, cercando di difendere il suo status quo, decide di ricorrere all’aiuto di fuorilegge che ne organizzino inizialmente una difesa efficace e, poi, sferrino un attacco decisivo contro i suoi oppositori. Gli altri personaggi sono accessori al necessario sviluppo sociale del vecchio west. Essi passano via; vivono la loro vita, contribusicono all’espansione dell’Uomo bianco, ma esaurita la loro funzione, possono tranquillamente scomparire. I sette eroi del racconto, quindi, sono personaggi destinati fin dall’inizio alla sparizione: il loro intervento è sicuramente necessario, ma, alla fine, non c’è posto per loro (se non per il più giovane che abbandona l’avventura per una vita già borghese) nei piani di quella società che hanno aiutato tuttavia a creare. La loro storia ha, quindi, un carattere puramente episodico: è una delle tante storie possibili che creano la mitologia del western classico. Ed è proprio questo carattere episodico, congiunto all’infinita replicabilità dello schema narrativo (e già lo percepì la stessa industria conematografica con una serie di improbabili seguiti) a creare la possibilità di un racconto televisivo come quello che sta ora allietando le nostre serate estive su RAI 2. Quello che conta in questo telefilm è proprio l’infinita replicabilità dello schema di partenza in una serie di avventure in cui gli eroi borderline del vecchio film sturgessiano si trovano costantemente invischiati. Non ha importanza, in fin dei conti, l’originalità, ma la capacità di variare sui temi, la capacità di giocare con le situazioni in un racconto il cui esito è sempre scontato: vincono gli eroi, i cattivi vengono messi a tecere. I magnifici sette diventa, quindi, nella versione televisiva una sorta di A-team del vecchio west con una serie di aggiustamenti rispetto al prototipo non certo di poco conto: in primis l’amaro disincanto dei protagonisti deve far spazio ad una sia pur larvale forma di idealismo (semi patriottico) che deve permettere ai pistoleri di voler sempre lavorare per il trionfo della giustizia (anche se la loro azione non è riconosciuta dalla società). Ma soprattutto il cambiamento più grande è proprio nello schema attanziale di cui parlavamo prima. Se nel vecchio film, infatti, la vera protagonista occulta era proprio la città, nella serie sono proprio i sette a diventare i veri protagonisti del racconto. Gli attori non hanno forse il fascino dei loro prototipi (e, spesso, neanche la bravura), ma brillano per sorniona simpatia (in particolare Dale Midkiff e Andrew Kavovic che interpretano, in ogni caso, i due personaggi più vivaci). I racconti sono sicuramente godibili, ma nel mondo di oggi, forse, rischiano di lasciare il tempo che trovano.

Telefilm: I magnifici sette; origine: U.S.A., 1998; Interpreti: Michael Biehn, Eric Close, Andrew Kavovit, Dale Midkiff, Ron Perlman, Anthony Starke, Rick Worthy; In onda: tutte le domeniche, in prima visione, alle 21:00; Rete: RAI 2

[Luglio 2002]


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