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Ich war zuhause, aber - Concorso

Pubblicato il 13 febbraio 2019 da Matteo Galli

VOTO:

Ich war zuhause, aber - Concorso

Se si potesse rivedere una seconda il film con penna e taccuino o se si disponesse della sceneggiatura, una possibile recensione di Ich war zuhause, aber (Sono stato/a a casa, però) di Angela Schanelec, il terzo e ultimo film tedesco in concorso dal titolo à la Ozu potrebbe essere un mero elenco, in fila, delle sequenze a cui assistiamo, lasciando al lettore (come la regista fa con lo spettatore) il compito di creare una sequenzialità logica, un asse sintagmatico. Ci proveremo, almeno in parte. Non è evidentemente tutto tutto casuale e autoconclusivo, ci sono alcuni episodi che ritornano e che, a loro modo, rispecchiano un’evoluzione, ma la relazione fra quelli che con un po’ di buona volontà si potrebbero chiamare i filoni principali del film, contrassegnati tutti da inquadrature fisse (a parte il prologo, vedi fra un attimo, ci saranno a esagerare forse tre carrellate, per il resto la macchina da presa non si muove neanche a morire) è tutta affidata all’immaginazione dello spettatore e alle sue capacità associative. Anche in conferenza stampa Schanelec non ha fornito il minimo aiuto non già a un’interpretazione sistematica del film, ma nemmeno a micro-chiarimenti richiesti da giornalisti presenti, un po’ irritata e un po’ con atteggiamento ingenuo o finto ingenuo di chi non sa, non vuole sapere, non ha idea di come spiegare determinate sequenze, determinate scelte, rifugge da ogni elaborazione teorica. Si diceva il prologo: la macchina da presa segue la corsa di un cane, la macchina da presa segue la corsa di una lepre, almeno due volte ciascuna, si intuisce che il cane sta inseguendo la lepre, anche se non sono mai inquadrati insieme, e dunque, ovviamente, non si vede il momento della cattura. Si vede invece in una specie di casa abbandonata in mezzo alla campagna una sequenza fissa: il cane che sbrana le lepre e se ne ciba, nella stanza accanto un asino che li ignora perché per lo più volge lo sguardo verso la finestra. Stacco. Il cane, sazio, si è addormentato accanto all’asino. Ritroviamo questa scena, verosimilmente girata in Serbia (visto che quel paese ha coprodotto il film) alla fine, prima dei titoli di coda. Nel mezzo, cioè per quasi cento dei centocinque minuti di durata del film, siamo a Berlino e facciamo la conoscenza di Astrid, una donna che in un qualche punto apprenderemo essere da qualche anno vedova, che lavora nell’industria culturale berlinese, di cui però concretamente non si dice nulla, la vediamo una volta in quello che sembra un ufficio (allacciata a due uomini, poco prima si era visto a uno scaffale il libro di Doris Lessing A Man and Two Women, significa qualcosa?) poi in una pinacoteca. Astrid ha due figli: il più grande Philip è stato via per una settimana e poi, tutto sporco, è tornato. Dov’è stato? Cos’ha fatto? Perché è stato viva? Alla sua partenza allude il titolo? Non si sa, non si può sapere. La più piccola si chiama Flo, sembra invece molto tranquilla, ubbidiente, carina e affettuosa. La madre va dalla scuola del figlio e nella stanza dei professori fa un discorso piuttosto sconclusionato (su cui chi scrive ha interpellato la regista, ma Schanelec non spiega), poi va spesso a fare la spesa, all’uscita da un supermercato incontra uno che parrebbe essere un regista (ma anche un neo-professore) e lo investe con un discorso torrenziale su teatro, cinema, verità e menzogna. Poi – una delle poche sequenze con un follow up – compra una bici usata che si rivela non funzionante, quindi vuole i soldi indietro e torna una seconda volta dall’ex proprietario e poi ci parla una terza volta al telefono, il proprietario ha avuto un tumore alle corde vocali e parla con la macchinetta apposita, il dialogo ha tratti surreali. Poi, alla scuola di Philipp, mettono in scena (anche qui almeno tre sequenze) l’Amleto. Poi Philipp si fa male a un piede e rischia la setticemia, e finisce in ospedale, da ultimo gli hanno anche amputato il mignolo di un piede. Poi un ragazzino mai visto fin qui si intrufola in un ingrosso di bevande senza esservi impiegato. Poi a un certo punto Astrid e i figli ballano. Poi lei li caccia di casa, malgrado Flo avesse preparato ottime frittelle per colazione. Poi, poi, poi. Non abbiamo raccontato le scene in sequenza, per lo più la sequenza appare casuale. Psicologia, e per carità va anche bene, zero o quasi (la donna sembra stressata per la fuga del figlio, per il lutto pregresso, forse chissà). Sociologia, e per carità va anche bene, zero o quasi (il lavoro non le piace? La città non le piace? Chissà). Qualche eco bressoniana, magari del tardo Bresson (ma non solo, pensiamo all’asino), fenomenologia a palla, estetica dell’inquadratura, spesso impeccabile, ritmo lento, tanto silenzio e un paio di discorsi, come detto, torrenziale. Un film da festival, da manuale della Berliner Schule in questo caso, di cui come si diceva nel pezzo di presentazione, Schanelec è un’esponente estrema. Col che, anche quest’anno, si è esaurito il plotone dei film tedeschi. E anche quest’anno sembra alquanto difficile che i tedeschi tornino, quindici anni dopo La sposa turca, a vincere l’Orso d’Oro.


CAST & CREDITS

(Ich war zuhause, aber ); Regia: Angela Schanelec; sceneggiatura: Angela Schanelec; fotografia: Ivan Marković; montaggio: Angela Schanelec; interpreti: Maren Eggert (Astrid), Jakob Lassalle (Philipp), Franz Rogowski (Lars), Clara Möller (Flo), Lilith Stangenberg (Claudia), Alan Williams (il signor Meissner), Jirka Zett (l’amica di Astrid); produzione: Nachmittag Film Angela Schanelec; origine: Germania, Serbia 2019; durata: 105’.


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