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IL CARCERARIO: 2005, FUGA DA FOX RIVER

Pubblicato il 10 dicembre 2006 da Giampiero Francesca


IL CARCERARIO: 2005, FUGA DA FOX RIVER

“Quando uno viene chiuso in prigione crede sempre di essere vittima delle circostanze. Quest’idea poi gli penetra sotto la pelle e lo riempie di amarezza e di odio” (Codice penale, The criminal code, H.Hawks 1931)

Odio. Risentimento. Se dovessimo metterci nei panni di un carcerato, ingiustamente condannato, sarebbero probabilmente questi i sentimenti che coveremmo sotto la pelle. Un luogo così, capace di accendere tante emozioni e riflessioni anche solo ad immaginarlo, non poteva sfuggire agli occhi attenti dei produttori americani.

Nasce in questo modo, in sordina, nascosto fra i generi già consolidati del thriller, del gangster movie, del melodramma, il jail drama: il carcerario. Sono gli anni ’30, esattamente il 1930, quando esce nelle sale “Carcere” (The big house) di G.W.Hill, un film claustrofobico, opprimente, dominato da un realismo crudo e spietato; l’archetipo del carcerario. L’industria hollywoodiana comprese immediatamente il potenziale di un genere basato sul mix fra il sapore acre del risentimento e il gusto forte della ribellione. E lo mise a frutto.
Io sono un evaso (I Am a Fugitive from a Chain Gang, M. LeRoy, 1932),20.000 anni a Sing Sing (20,000 Years in Sing Sing, M.Curtiz, 1932), La bolgia dei vivi (You Can’t Get Away with Murder, L.Seiler, 1939) sono solo alcuni dei titoli che, negl’anni ’30, arricchiscono l’immaginario di questo genere. Come sempre nella storia, però, il cinema non può rimanere avulso dal contesto sociale, così nel 1954, a soli due anni da una delle più cruente rivolte carcerarie d’America, Don Siegel realizza “Rivolta al blocco 11” (Riot in the block 11), una requisitoria puntuale e violenta sulla condizioni dei detenuti americani. Il jail drama ha ormai una sua forma definita. Sopra le fondamenta è stata costruita un’impalcatura di sottotrame e personaggi topici che lo stesso Siegel rielabora in “Fuga da Alcatraz” (Escape from Alcatraz, 1979): il pollice verde (i crisantemi coltivati da Tornasole e da Doc), lo sradicamento dagli affetti familiari (la visita della moglie a Puzo), il sadismo del direttore e la stoltezza delle guardie sono esempi di quel fitto reticolato di caratteri e situazioni in grado di dare spessore a un genere. Dagl’anni ’30 ad oggi, maestri del calibro di Hawks, Demme, Mann, Aldrich, Frankenheimer si sono cimentati con le celle, i secondini, le fughe e i prigionieri; ma con l’arrivo degl’anni ’80 sembrava non esserci più spazio per il jail.

E’ ancora una volta la televisione, in particolare la HBO, a riesumare dalle ceneri un modello altrimenti destinato al dimenticatoio. L’idea di portare sul piccolo schermo temi ed immagini forti come quelle legate alle carceri è l’ultima tappa di un lungo processo. Un processo che investe la forma e la sostanza dei prodotti televisivi; si sdoganano temi come la violenza, di qualsivoglia livello, l’omosessualità, fino ad allora elemento latente del jail drama, e il conflitto religioso, fattore quanto mai attuale, visto spesso come ennesimo pretesto per scontri razziali. Tutto questo grazie alle innovazioni narrative e drammaturgiche. Finiti nel dimenticatoio i tre atti aristotelici e le strutture di Syd Field si moltiplicano all’infinito le linee narrative perdendo completamente di vista il concetto classico di protagonista unico, dalla statura narrativa superiore al contesto, e bandendo quasi definitivamente il principio di unità di spazio, tempo e azione. Tutto questo, dietro le sbarre, è Oz.

Che una rete di nicchia come la HBO possa produrre una sorta di docu-drama sulla condizione carceraria è un segno importante sullo stato di salute di un sistema televisivo, ma che un canale mainstream come la Fox metta in cantiere un progetto equivalente la dice lunga sul grado di maturazione di chi produce e, soprattutto, di chi guarda le serie in America. E’ lo stesso Wentworth Miller, uno dei protagonisti del jail targato Fox, a ben rappresentare il rapporto fra pubblico e producers negli States quando afferma che Prison Break sia “sulla scia di Lost e 24, partendo dal presupposto che il pubblico è abbastanza intelligente da seguire trama e personaggi nella loro complessità sul lungo periodo”. Parole, queste, che appaiono eretiche se proposte a quello che, almeno secondo i produttori nostrani, è l’uditorio italiano. Se Carcere rappresenta l’archetipo del carcerario al cinema, Prison Break è dunque il prototipo di jail televisivo. Nessuno dei requisiti classici è assente nel carcere di Fox River. Non si trascurano né gli elementi principali, il ritmo senza fiato o il senso d’oppressione, né quelli secondari, la passione per gli animali (Charles Westmoreland e il suo gatto), i difficili rapporti familiari (Lincoln Burrows/Dominic Purcell e suo figlio), il sadismo delle guardie e la rappresentazioni di precise gerarchie sociali (interne al carcere, ’T-Bag’ e uso “protettorato”, e esterne, John Abruzzi è un importante mafioso). Il tutto composto attraverso “un mosaico di personaggi, ognuno dei quali decisivo”, come ammette lo stesso Dominic Purcell, altro protagonista di Prison.
Sono questi i segni evidenti dell’evoluzione dei canoni estetici e narrtavi del jail drama; non c’è un’unica persona a condurre il gioco, non un unico motivo per fuggire. Di puntata in puntata si svelano elementi e caratteri, a loro modo risolutivi, in grado di sviluppare trame tutte diverse ma equivalenti, anche al di fuori delle mura carcerarie. Un universo di riferimento profondante calato nella realtà contemporanea, dai richiami alla guerra in Iraq (Benjamin Miles mente ai familiari fingendo di essere in guerra) alla costruzione di personaggi (Michael Scofield/ Wentworth Miller su tutti) figli degl’anni ’90. Ma proprio qui si palesa l’ultima grande impronta che la televisione lascia alla storia dei generi: l’autoreferenzialità.
Il mondo televisivo è pop, postmoderno, fatto di caratteri e citazioni che rielaborano la televisione stessa: uno spazio a se stante in grado, come pochi altri mezzi, di calare lo spettatore in un’atmosfera immediatamente familiare. Un segnale da non sottovalutare.


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