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IL NUOVO CINEMA ARGENTINO

Pubblicato il 5 luglio 2006 da Edoardo Zaccagnini


IL NUOVO CINEMA ARGENTINO

Prendi il cinema argentino per capire che a territorio e a tempo complessi corrisponde un articolato e diversificato modo di fare cinema. Il che significa riscontrare la presenza di tutti i generi o quasi dentro una produzione che va dal canonico allo sperimentale. Accosta tra loro questi film per scoprire che, con lineamenti ed espressioni personali, lo sguardo sulle cose sembra segnato da un comune cammino storico. Sottilmente, negli occhi, si legge la storia del popolo argentino. Di certo si ravvisa l’esplosione di un nuovo gruppo di registi, come in Italia, oggi, con sguardi e stili profondamente diversi tra loro. Dalla retrospettiva organizzata al Festival di Pesaro e dalla tavola rotonda sul cinema argentino a cui hanno partecipato numerosi critici e registi, si è palesata una realtà vitale e multiforme che va dalla commedia al documentario, dalla commistione di questi due generi a esperimenti meta-cinematografici che cercano la possibile o la giusta via estetica di questo nuovo cinema. In Italia accade qualcosa di simile perchè come in ogni storia ce ne una che la genera. Come anche in Italia, in Argentina gli anni ’80 non hanno lasciato nessuna eredità nè aperto il campo ad un linguaggio da percorrere e da sviluppare. Il limite di quel periodo, là, era stato di aver prodotto un cinema logoro e dipendente dalle altre arti, privo di un’idea personale e originale, teso a costruire stereotipi, risultato di un governo protezionista e disinteressato alla cultura quale era quello di Menem. Da noi nasceva la società dello spettacolo e il modello televisivo insegnava a fare cinema televisivamente. Poi sono arrivati gli anni ’90 che qualcuno ha definito i peggiori del cinema italiano, altri ne hanno invece elogiato la dislocata qualità cinematografica In Argentina, in quegli stessi anni, si è ravvisata l’assenza di una “scuola” di registi che potesse essere un punto di riferimento unitario per le nuove generazioni. Da lì poi, per esigenze storiche, si è sviluppato un’insieme di idee coerenti circa il modo di utilizzare il cinema. Tra le buone caratteristiche di questa onda feconda c’è stato il mantenimento di un legame con il passato storico attraverso il quale la nuova generazione, quella di inizio millennio, ha risposto alla necessità di coltivare una coscienza della realtà. Coscienza necessaria per costruire il senso di un presente dove non ci sia spazio per l’amnesia, l’indifferenza o l’ipocrisia. Su questa linea si pone il film Los rubios di Albertina Carri, che si avvale di tutte le potenzialità del documentario e della finzione mescolati e con questi cerca di ricostruire gli orrori di scomparse ed assassinii familari durante la dittatura argentina del generale Videl. La regista ripercorre a suo modo quel cinema politico della memoria. E non è la sola ad usare questo linguaggio: altre sono le opere che, tra fiction e documentario, indagano la Storia che va dalla contemporaneità ai corpi perduti del passato recente (Yo no sé qué me han hecho tus ojos di Muñoz e Wolf; H.I.J.O.S. El alma en dos di Guarini e Cespedes). A Contenuto potente linguaggio innovativo, di rottura. All’ impegno politico fa eco una taglio netto con un certo modo di fare cinema. Naturalmente, come in ogni altro paese, non è in atto una violenta e disegnata rivoluzione cinematografica. Accanto allo sperimentalismo e alla ricerca tematico-formale degli innovatori rimane un cinema commerciale appoggiato dai grandi gruppi industriali e rivolto a un pubblico di massa. Di fianco poi, e per logica comune, si è andato definendo sempre più un cinema indipendente, fatto da giovani cineasti spesso usciti da scuole di cinema, che lavorano con pochi mezzi e senza accordi economici che condizionino la loro libera creatività. E’ una storia tra l’altro già sentita. Uno dei film prodotti da questo ricambio generazionale è il progetto collettivo Historias breves (1995) in cui una serie di autori (Stagnaro, Burman, Ramos, Gaggero, Adrián Caetano, Gugliotta, Martel, Giovate, Tambornino e Rosell) offre uno sguardo nuovo e diversificato nel panorama della cinematografia argentina. Oltre a tentare di superare i temi delle generazioni precedenti, questi registi accettano il rischio di usare innovazioni formali portate dall’uso della camera a mano, del bianco e nero, del 16 mm, del video digitale. Un cinema aperto alla possibilità di nuovi sguardi genera anche nuove scelte narrative: i personaggi che si incontrano nel cinema degli anni ‘90, parafrasando Sergio Wolf, si allontanano dagli stereotipi e diventano se stessi, fuori da un campionario di un qualsiasi gruppo o classe sociale. Questi li ritroviamo nei film di Pablo Trapero (Naikor) e in Pizza, birra, faso di Caetano e Stagnaro o nelle commedie “neorealiste” e introverse di Martin Rejtman (Los guantes magícos) che lavora molto sull’individuo. Contemporaneamente, però, abbiamo anche “thriller” personalissimi come Un oso rojo di Adrián Caetano. Altri film sono legati alla crisi economica del 2001 o agli esperimenti di un’economia collettiva e corporativa (PyMe di Alejandro Malowici, Grissinópoli, el país de los grisines di Darío Doria). Altri ancora si rifanno al racconto urbano fatto di piccoli universi e storie minimali (Luis Ortega in Caja negra e Monobloc). Se si vuole trovare una sorta di continuità con il passato, lo si può ricercare nel rapporto delle nuove generazioni di registi con la filmografia di Leonardo Favio, originale e indiscusso maestro che, più che fornire un modello stilistico, esprime un’idea di fare cinema libero, indipendente e capace di contaminare la cultura popolare con quella colta. Un cinema tenuto in identità dalla sua bellezza visiva, diseguale da pellicola a pellicola, ma sempre di alto valore. Il maestro insegna a far le cose per bene, ad esprimersi con efficacia e personalità. E’ un nonno forte, robusto e lontano a quel punto da non essere castrante.


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