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Il Trittico di Giacomo Puccini e Damiano Michieletto

Pubblicato il 6 maggio 2016 da Anton Giulio Onofri


Il Trittico di Giacomo Puccini e Damiano Michieletto

Nel Polittico di Ponteranica, quello con il suo Angelo Annunciante più bello e famoso, leggiadro e trasparente come pasta vitrea, a sinistra del Cristo risorto e della Vergine Annunciata dipinti nei tre scomparti della parte superiore, Lorenzo Lotto adottò, nel trittico di tavole inferiori, che raffigurano al centro il Battista, e ai lati San Pietro e San Paolo, uno stratagemma narrativo di grande efficacia figurativa. Pur rappresentati ciascuno in tre tavole distinte, separate da cornice dorata a scomparti, i tre santi condividono il medesimo sfondo paesaggistico, esteso come una panoramica dalla tavola di sinistra a quella di destra, dalle colline anconetane fino all’Adriatico. Non so se sia la prima volta che questo accade nella storia dell’arte, ma certo è scelta artistica piuttosto rara e, va da sé, di grande effetto scenografico poiché sfonda e supera i limiti fisici dei contorni delle tre immagini e le unifica proiettandole su una vastità naturale che ci inonda e ci allarga lo sguardo. Non so se Damiano Michieletto, che è veneziano come Lorenzo Lotto, conosca il Polittico di Ponteranica, ma è assai probabile che si sia spinto fino al piccolo villaggio in provincia di Bergamo in uno dei suoi frequenti spostamenti padani, e visitando la Chiesa dei Santi Vincenzo e Alessandro, l’azzurro cielo tripartito che abbraccia le colline marchigiane digradanti verso la calma distesa marittima, sfondato dietro la scagliosa caverna che ospita la terna degli aureolati, gli abbia suggerito l’idea per tenere insieme questo Trittico pucciniano con un artificio scenico che insieme alla sua magistrale realizzazione compiuta ne ha fatto uno degli spettacoli più brillanti e attraenti visti quest’anno in un teatro d’Opera italiano. Quello di Michieletto è, alla tedesca, un Regietheater, cioè quel teatro in cui il regista si prende la libertà assoluta di ambientare la storia originale in una o più epoche storiche più vicine alla nostra modernità, preferibilmente durante uno dei tanti regimi totalitari del XX secolo, di modificarne aspetti della trama, di enfatizzarne eventuali implicazioni politiche, di espungerne con evidenza a volte fin troppo esplicita l’erotismo sotteso e mascherato per svicolare le censure dell’epoca. Una scelta che non mi trova sempre d’accordo, là dove la pretestuosità ha il sopravvento sul rispetto dell’opera in oggetto, ma che è profondamente ingiusto rifiutare a priori in favore di allestimenti magari più fedeli all’argomento, tuttavia blandi e privi d’invenzione e di senso del teatro. Stavolta, va detto, Michieletto ha fatto centro pieno, e chi si fosse accostato per la prima volta al Trittico di Giacomo Puccini in questa occasione, non avrà trovato nel Tabarro né Parigi né barconi attraccati ai lungo Senna. Ma ne avrà percepito senz’altro il limaccioso fluire di dramma della gelosia da fogliettone popolare come quei mélo cinematografici francesi dei più foschi e nebulosi anni ’40, che fece storcere il naso a Toscanini infastidito da alcuni accenti veristi abitualmente estranei all’autore di Bohème e Butterfly. Della Suor Angelica, fra i tre titoli il preferito da un Puccini consapevole delle finissime ricercatezze della propria scrittura musicale affacciata su un Novecento ormai già instradato verso le incertezze tonali, solo il prezioso naturalismo ruskiniano della partitura orchestrale potrà aver fornito al neofita del Trittico la suggestione visiva delle guglie neogotiche di un secentesco monastero di clausura sperso nella campagna senese, ma puntualmente lo avrà travolto lo schianto emotivo della valanga di subdola ipocrisia che recide la vita di una tra le tante sventurate vittime di una religiosità intesa come prigione dell’istinto e dell’amore tra gli umani viventi. Addirittura si adombra, nella lettura di Michieletto, il dettaglio inquietante (e a ripensarci è un’idea decisamente grandiosa) che quella della Zia Principessa, venuta ad annunciare alla giovane la morte del figlioletto partorito nel peccato sette anni prima e mai più rivisto, sia in realtà una vistosa bugia, di quelle dette con l’espressa intenzione di confondere e ammantare nell’ombra della follia la mente di una fanciulla emotivamente fragile e indelebilmente segnata dalla sua maternità non vissuta. L’accompagna infatti un ragazzino cui la Badessa interdice l’accesso al convento… La tragedia sommersa, claustrale, che non trova sfogo nell’urlo sguaiato o nella platealità del gesto, ma nella perdita di senno e nella consunzione del dolore, si dipana con cadenze implacabili scandite dalle luci livide che Michieletto proietta sulle hitchcockiane e fantasmatiche presenze che frequentano l’allucinazione e il deliquio di Suor Angelica, e raggiunge, al centro esatto dei tre stadi della serata, un culmine emotivo di impatto raggelante. Non avrà riconosciuto, l’ipotetico ascoltatore alla sua prima esperienza col Trittico, Firenze dalle trifore sfondate sul trecentesco cielo turrito della città di Dante, il cui paio di versi dedicati nella Divina Commedia all’imbroglione Gianni Schicchi sono la radice della prodigiosa farsa inventata dal librettista Giovacchino Forzano e musicata da un altrettanto scintillante Puccini a suo agio perfetto, come altrove tra rapimenti lirici e inesorabili tragedie, qui con la rutilante sfrenatezza comica di uno dei più irresistibili “scherzi” mai messi in musica. Non avrà riconosciuto Firenze, ma avrà sghignazzato a crepapelle della toscanissima ironia irrorata a piene mani nel libretto, servita dal miracolo sonoro di un’orchestra lanciata al galoppo in una fastosa giostra di ritmi e colori, dove sfila come in un classico trenino delle odierne feste in discoteca un campionario di eterne tipologie italiane maschili e femminili. E come con un film di Totò, con lo Schicchi si ride sempre fino alle lacrime, riconoscendo (e riconoscendoci) nei vezzi e nei difetti dei nostri connazionali piccoloborghesi. Tra gli interpreti vocali è doveroso citare almeno Roberto Frontali, il migliore in scena nel doppio ruolo di Michele nel Tabarro e dello stesso Schicchi; Patricia Racette come Giorgetta (Tabarro) e Suor Angelica, attrice consumata ma ahimè vocalmente confusa nel registro acuto; la superba, perfida Zia Principessa della maggiore star vocale in locandina, Violeta Urmana; e ancora la coppia amorosa dello Schicchi, lo squillante Ranuccio di Antonio Poli e la soave Lauretta di Ekaterina Sadovnikova (il suo “O mio babbino caro” ha meritato l’applauso che dopo tanto languido splendore ha giustamente interrotto la corsa pazza del terzo ed ultimo capitolo della serata) .Ma al di là della loro efficacia persiste, a distanza di qualche giorno dalla rappresentazione dello scorso 19 aprile in cartellone al Costanzi (dove tra l’altro il Trittico fu presentato, rivisto e perfezionato, in prima europea nel gennaio 1919 dopo la prima assoluta a New York qualche mese prima), l’adesione entusiastica all’idea più forte e originale della regia che Damiano Michieletto ha ideato per il suo spettacolo-capolavoro: come la panoramica di cielo e mare stesa sulle tavole dei santi della parte inferiore del polittico di Lorenzo Lotto, che tutti e tre riunisce sotto lo stesso cielo di un unico paesaggio nonostante la suddivisione in tre diverse immagini dipinte, qui a fungere da elemento comune ai titoli del Trittico sono dei parallelepipedali container di metallo assiepati e accatastati uno sull’altro, che lontanissimi dall’evocare la Parigi del Tabarro, la campagna senese di Suor Angelica, o la Firenze di Nostro Padre Dante, diventano “contenitori” di storie, e di quel che occorre per rappresentarle. Cosí come è una scatola il palcoscenico di un teatro che ospita scenografie e oggetti di scena, ad esempio il paio di scarpine da neonato che a Tabarro concluso Michele affida all’interprete di Giorgetta, pronta a calarsi nei panni di Suor Angelica, attaccata dall’orchestra quasi immediatamente, senza intervallo. Ma un contenitore, anzi una camera oscura è anche la gelosia di Michele, che gli stritola il cuore in una morsa accecante e lo induce alla furia omicida; un contenitore è il convento delle suore di clausura che reprime e spegne la naturalità buona e materna di Suor Angelica; e contenitori sono le casse che conterranno l’ingente eredità di Buoso Donati, su cui svolazzano come avvoltoi i parenti più e meno stretti accorsi al suo capezzale di moribondo… Scatole interscambiabili, trasportabili, smontabili, rimontabili, pronte, come al termine della serata, a riposizionarsi come all’inizio, pronti a fungere la scena de Il Tabarro nella recita successiva… Regietheater, dunque, ma di una qualità e di uno spessore che il pubblico ha mostrato di gradire parecchio e senza riserve. Concludo non senza menzionare l’altra piacevole sorpresa di questa serata felice: sul podio, il giovane Daniele Rustioni, da me finora mai ascoltato in simile stato di grazia, che ha ottenuto dai professori dell’Orchestra del Teatro dell’Opera insospettate raffinatezze timbriche ed eleganze di canto spiegato, in convincente e fantasiosa varietà di accenti, qui dove esplode il dramma, là dove trionfano comicità e allegria.


(Trittico) Musica: Giacomo Puccini Regia: Damiano Michieletto Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Daniele Rustioni Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma


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