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Il Trovatore all’Opera di Roma

Pubblicato il 22 marzo 2017 da Anton Giulio Onofri


Il Trovatore all'Opera di Roma

A Roma, sul Lungotevere Tordinona, nel tratto opposto alla riva tra Castel Sant’Angelo e il Palazzaccio, potrà esservi capitato di parcheggiare nei pressi di una stele commemorativa, una sorta di altarino neoclassicheggiante ornato di due mascheroni teatrali, due colonnine ioniche, una lira, e una fontanina a conchiglia che un tempo gettava acqua in una vasca a forma di antico sarcofago: vi si ricorda un evento che ebbe luogo nel non più esistente Teatro Apollo il 19 gennaio 1853, ovvero la prima assoluta de Il Trovatore di Giuseppe Verdi (del quale, sei anni più tardi, nello stesso teatro si rappresenterà per la prima volta Un Ballo in Maschera). Ascoltare perciò Il Trovatore a Roma acquista, e non so in quanti tra il pubblico ci abbiano pensato sere fa al Teatro dell’Opera, una valenza speciale per il tutt’altro che immediato abbinamento tra la Capitale e il massimo genio del nostro Melodramma, assai più legato nell’immaginario degli appassionati ad altri teatri italiani, decisamente più a Nord. Il successo della serata al Teatro Apollo fu travolgente, anzi forse mai, nemmeno con il Nabucco, “Verdi arrivò tanto vicino al cuore del suo pubblico”, come scrive il musicologo e biografo verdiano Julian Budden. Nonostante la vicenda, tra le più farraginose della storia della Lirica, tale è il fulgore statuario dei quattro ruoli principali per i quali Verdi ha scritto tra le sue melodie più felici ed estatiche, e più intrise della dolorosa malinconia del vivere in condizioni di privazione d’amore, che il maggior punto di forza dell’opera sta tutto nella sua musica, e nella magistrale alternanza tutta teatrale di un ondoso moto di sentimenti continuamente sollecitati da un fato ostile e tragico. E’ infatti solo con Verdi (ma forse anche con Puccini) che all’ascolto integrale di questo o quel titolo si ha la sensazione di scorrere un’antologia di grandi successi altrettanto celebri che in un’eventuale hit parade di canzonette leggere, di quelle che hanno accompagnato la nostra, ma anche le vita dei nostri genitori e dei nostri nonni. Momenti come “Di quella pira” o il “Miserere” sono, come se non bastasse, luoghi topici dell’idea stessa di Melodramma, come l’incipit della Quinta di Beethoven per l’intero universo del repertorio sinfonico.

Della cosiddetta “Trilogia popolare”, Il Trovatore è il titolo che, almeno nei tempi attuali, pone i problemi maggiori. Non tanto di regia e di allestimento: quattro protagonisti equamente distribuiti nelle quattro più consuete tessiture vocali, altrettanti comprimari con pochi righi di canto, più un quinto, un basso, cui spetta il ruolo di introdurci nella fosca vicenda nel quadro di apertura, e il coro; non propriamente un Colossal, dunque. Fatto sta che rispetto a Rigoletto, per il quale non è difficile mettere insieme un baritono istrionico ed espressivo, un soprano di agilità per Gilda, e una voce tenorile giovane, fresca e chiara per il Duca di Mantova, e a Traviata, che una volta caduto il troppo a lungo perdurato tabù dell’esclusiva di Maria Callas ha visto in anni recenti calcare i palcoscenici nuovi soprano dotati sia delle agilità necessarie nel primo atto che delle qualità drammatiche vocali richieste nel resto dell’opera (come dimostra l’enorme successo riportato dal recente allestimento scaligero con Anna Netrebko), Il Trovatore necessita, per il “ruolo del titolo”, di una voce maschile ardente, squillante e titanica, oggi autentica rarità. Questa è la ragione più vera e seria per cui, ad esempio, mancava dal romano Teatro dell’Opera dal 2001 (e dal 2004 dalle Terme di Caracalla) e fra le tre “popolari” verdiane è quella meno rappresentata. L’interesse maggiore del suo ritorno all’ex teatro Costanzi era perciò riposto nel Manrico di Stefano Secco, voce elegante e senz’altro luminosa, ma più adeguata a ruoli più leggeri e “di grazia”, come i tenori belliniani e donizettiani, francesi o il Pinkerton della Butterfly di Puccini. Un po’ come scegliere Gary Cooper per il ruolo di Ursus. Alla prova di ascolto, la sensazione – tenendo presente il monumentale risultato di Franco Corelli, forse il più grande Manrico mai esistito – è intanto di una comprensibile fatica, e di un’assenza di spontaneità negli slanci più impervî. Ma il canto è salvo, e la mestizia crepuscolare del personaggio intatta. Molto meno convincente, invece, è stata la Leonora di Tatiana Serjan, voce generosa ma affettata fin quasi, ahimè, alla caricatura, e dalla dizione incomprensibile. Il Conte di Luna era Simone Piazzola, il più applaudito, anche lui di canto generoso ma un po’ meglio gestito, pur nel volume contenuto della voce. Cupa, forse troppo, ma unica fuoriclasse del cast, Ekaterina Semenchuk ha disegnato un’Azucena finalmente consapevole di non essere la vera madre di Manrico (ma chi, tra gli ascoltatori, impigliato nell’intricatissima trama, se ne è mai reso conto?), e forse di lui anche un po’ innamorata, nel rimpiangere quei monti dove, lo sa lei per prima, mai faranno ritorno: nell’intonare, verso il finale, quella ninna nanna sull’allucinato ritmo ternario di un valzer lento, guarda nel vuoto con occhi ipnotizzati dal cupio dissolvi di un sonno ultimo e definitivo. Efficace, solido, rapsodico, il Ferrando di Carlo Cigni.

Deludente, dal podio direttoriale, la prova di Jader Bignamini, infinitamente più a suo agio, l‘anno scorso, con le finezze e con il canto più languido ed elegante di Traviata (il magnifico spettacolo con i costumi di Valentino e la regia di Sofia Coppola), che con gli impeti corruschi e i ritmi guerrieri previsti nel più fiammeggiante e “virile” Trovatore, dove anche il canto più lirico è comunque venato di notturno, terrestre mistero. Avrebbero forse giovato dei tempi appena più sostenuti, anche per star dietro alla regia, riuscita particolarmente gradita al pubblico del Teatro dell’Opera, affidata ad Àlex Ollé, uno dei “ragazzi terribili” della Fura dels Baus, forse il più geniale, e senz’altro il meno animato da quella volontà iconoclasta ed eccentrica che a volte disturba negli esperimenti lirici del team catalano. Il suo è un Trovatore, come prescritto nel libretto di Cammarano, in tempo di guerra, ma una guerra senza tempo, per spogliarla della distanza e della vuota retorica delle tante guerre della Lirica, sfondi pretestuosi per vicende di più dichiarata intimità sentimentale, e portarla ad assomigliare a guerre a noi cronologicamente più vicine. La sua macchina scenica è una oscura scatola di metallo, infestata da file ordinate di monolitici parallelepipedi mobili di altezze diverse che fungono da ostacolo per la visuale e per la fruizione libera di un Lebensraum via via sempre più ridotto, che riflettono i fulminei e baluginanti abbagli di pire, fiammelle e spari di fucili e revolver, ad accrescere il senso di un potere schiacciante che l’uomo non si è scelto, ma con il quale pare voler collaborare con tutta la sua stupida solerzia per riempire il vuoto della sua prosaica esistenza, ben misera rispetto a quella degli eroi del dramma, vittime invece di tutt’altro potere, quello della passione d’amore, cui si sottomettono con identica devozione, in un gioco al massacro che l’arte, in questo caso la musica e il teatro, sublima ed estingue nell’orrendo foco di una pira mai spenta.


(Il Trovatore); di Giuseppe Verdi; Direttore d’orchestra: Jader Bignamini; Regia: Àlex Ollé; interpreti: Stefano Secco, Tatiana Serjan, Simone Piazzola, Ekaterina Semenchuk, Carlo Cigni; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma; spettacolo in coproduzione con De Nationale Opera di Amsterdam, Opéra National di Parigi


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