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Il volo di Wim Wenders

Pubblicato il 7 aprile 2010 da Alessandro Izzi
VOTO:


Il volo di Wim Wenders

Comincia con un bambino che fa da messaggero alato, Il volo di Wim Wenders, un corto digitale in 3D che giunge inaspettato nella filmografia di un regista che, fino a qualche film fa, odiava tutto ciò che non era pellicola.
Salvatore, questo il nome del piccolo protagonista, cresce in una città vecchia. Non ha coetanei con cui giocare e neanche una scuola dove poter imparare a leggere e scrivere. I suoi amici sono i vecchietti che non si vedono, gli adulti disillusi che passano la vita aspettando. Nel paese i giovani se sono andati da tempo, emigrati in cerca di miglior fortuna nelle ridenti contrade del nord o anche all’estero, quel paese lontano dal quale in pochi ritornano.
Suo amico è il sindaco della città, un arzillo sognatore che vola su un piccolo biplano e (forse) invita sulle spiagge del paesino i profughi che giungono dal mare, di lontano. Albanesi prima, afgani poi, infine curdi. Fuggono dai loro paesi in guerra, dalle lotte di religione, da condizioni di vita disumane e trovano accoglienza sulla riva del mare, tra volantini gialli di benvenuto che piovono dal cielo.
Meno felice il prefetto che li smista, che deve dare loro una sistemazione, capire fino a che punto sono clandestini da rimandare indietro, nei paesi dai quali sono scappati.
Salvatore fa da spola tra le rimostranze di questo buffo personaggio in fondo umano e il sindaco che dice che le tante case rimaste disabitate sono pronte ad accogliere questa massa di gente. Il paese morente non ha che da guadagnare dall’arrivo dello straniero. Possono riaprire le farmacie e le scuole, si può pensare addirittura allo stadio. Da parte sua Salvatore si limita a contare i bambini arrivati in spiaggia. Se sono abbastanza magari ci scappa una partita di calcio: una manna dal cielo per un bambino che è abituato a giocare a palla solo contro un muro.
Sin qui nulla di nuovo sotto il sole. Quel che si presenta allo spettatore è un corto semplice, piano, immerso in un clima di commedia acre, con qualche accento felliniano ben distribuito nei dettagli (come l’ombrello colorato che fa da parasole nell’improvvisato ufficio d’accoglienza all’aperto, sulla spiaggia).
Poi l’immagine si arresta ed un quieto carrello ci porta fuori dalla storia, sul tavolo di montaggio. Wenders si mette in gioco in prima persona e dichiara che qualcosa della storia comincia a sfuggirgli tra le dita. La storia d’accoglienza è bella e di calda umanità, ma gli occhi dei bambini scampati al mare son troppo pregni dell’esperienza del viandante per lasciare lui, che ha cantato il viaggio in tutte le sue forme, indifferente a tanto sguardo.
Il corto così si arresta e si fa metacorto, parla di se stesso perché ha perso interesse per la storia che andava narrando che sapeva troppo di cinema e troppo poco di realtà. Così l’asse della rappresentazione di sposta dalla storia al suo regista: nessuna novità, anche in questo, siamo ancora dalle parti di Fellini, in fondo. E il corto rimesta questo materiale risaputo miscelandolo con la simpatia dei personaggi e gli occhi candidi del documentario che intervista le persone e se ne lascia sedurre. Finzione e realtà fanno cortocircuito come da copione e il messaggio scivola piano, con l’ingombranza declamatoria tipica di chi pensa di aver ragione.
Fosse continuato così sarebbe stato un corto banale ed anche un poco fastidioso nel suo dire cose vere senza contraddittori. Wenders un po’ se ne rende conto. Soprattutto si rende conto che a raccontare storie di viaggi senza spostarsi a sua volta crea disparità, distanze. Anche il corto deve viaggiare e con lui il suo autore. Così, invitato dai bambini extracomunitari, il regista si sposta a Riace e cerca i suoi ragazzi per conoscerli meglio, perché i loro occhi l’hanno sfidato con le loro storie di mare e di guerra. Ma per spirito di finzione (perché vero e falso son sempre indistricabilmente confusi) arriva quando è troppo tardi, quando i suoi intervistati son già partiti per un altro viaggio. Comincia così un dialogo impossibile tra regista e personaggi, un campo/controcampo di ricordi impossibili visto che Wenders è arrivato a Riace quando i bambini già non c’erano più.
L’intervista segnala allo spettatore, senza quasi che questi se ne accorga, una distanza incolmata tra orecchio e voce. Chi ascolta è lontano da chi parla e l’ineluttabilità di questa distanza si fa politica oltre che esistenziale. Wenders ci dice, con una scelta estetica felice, quanto sia difficile ascoltare davvero l’altro anche quando ne subiamo il fascino e lo sentiamo paradossalmente vicino. Quei bambini, in realtà, li cacciamo tutti i giorni anche se abbiamo le braccia aperte per accoglierli. E, in fondo, quando la strada, nel finale del corto, si popola dei fantasmi venuti da altri paesi, l’impressione, nello spettatore è che un vuoto sia stato colmato solo in apparenza. Fintanto che quei fantasmi non cominceranno a popolare le strade vuote dei nostri cuori, pare dirci Wenders, ci sarà spazio solo per leggi inique che puniscono le persone per il solo fatto di esserci.


(Il volo); Regia e sceneggiatura: Wim Wenders; fotografia: Romano Albani; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Ben Gazzara, Luca Zingaretti, Salvatore Fiore, Ramadullah Ahmadzai; produzione: Presidenza della Regione Calabria, Fondazione Calabria Film commision, Technos Produzione Cinematografiche; origine: Italia, 2010; durata: 32’


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