X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Venezia 77 - In between dying

Pubblicato il 13 settembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Venezia 77 - In between dying

Dopo Chloè Zhao, è ora il regista azero Hilal Baydarov a portare sul grande schermo il proprio concetto di pellegrinaggio. Lontano anni luce dalle aride steppe percorse da Fern nel suo viaggio verso una Mecca inesistente, In between dying sembra affondare nel fango e nella nebbia che cingono il nostro protagonista. La pellicola traduce per immagini un percorso di iniziazione a senso unico: come in ogni Bildungsroman che sia degno di chiamarsi tale, l’immaturo e incosciente Davud (Orkhan Iskandarli) parte dal punto più basso per poi cercare di risalire la china. Ribelle e indomabile, il ragazzo abbandona a casa la madre malata e monta sulla sua moto alla ricerca di sé stesso. Pochi istanti più tardi, un uomo lo insulta ed egli, mosso da un’ira incontenibile e probabilmente ancora acerba, lo uccide con un colpo di pistola. Così, inseguito da tre figuri di non ben identificabile provenienza, il giovane inizia una fuga rocambolesca per le fradice terre del suo Paese. Da questo momento in avanti, la narrazione si frammenta in numerosi rivoli, ognuno dei quali scorre e commenta un diverso piano della medesima realtà. La diegesi si divide in vari capitoli, che a loro volta si dividono in paragrafi, e così via fino a quando il cerchio non si chiude. L’impressione è quella di assistere sempre agli stessi avvenimenti: sul proprio cammino, Davud sarà destinato ad incrociare molte vite e molte morti, tutte spaventosamente simili fra loro. Nascondendosi in una fattoria, egli aiuta una ragazza a sbarazzarsi del padre aguzzino. Sul ciglio della strada, una moglie trova la forza necessaria per vendicarsi del marito-padrone dopo anni di maltrattamenti e umiliazioni. Una sposa abbandona il fidanzato all’altare e, tentando di sfuggire alla famiglia, si spara al cuore con la stessa rivoltella utilizzata dal protagonista all’inizio delle sue peripezie.

A parafrasare le altrimenti inspiegabili vicende sono le voci dei tre inseguitori, i quali assistono agli avvenimenti in un limbo sospeso fra la sala e la realtà cinematografica in cui corre Davud. I toni, dapprima vagamente ironici e scherzosi, si fanno sempre più seri e profetici a mano a mano che il regista sfoglia le pagine della sua parabola. All’interno come all’esterno del grande schermo si leva nell’aria il medesimo interrogativo: che cosa cerca questo irrequieto vagabondo? La risposta svelerà i propri lineamenti solo in vicinanza del traguardo finale, ma il passato di Davud e l’identità ritrovata rimarranno celati. I pensieri del giovane tracciano i contorni della sua strana ascesi e sembrano parlare un idioma diverso da quello terreno, quasi reggessero il peso di una già perfezionata consapevolezza. Scopriamo dunque che Davud, prima di comparire davanti all’obbiettivo, ha avuto una moglie, un figlio, una quotidianità sconvolta dalla guerra e dalla malattia materna.

Eppure, non siamo mai certi di udire la verità: troppi sono i livelli in cui gli avvenimenti si dipanano, troppi sono i silenzi e i vuoti, così come troppe e troppo ridondanti sono le parole poste a riempire quei vuoti. Il regista vorrebbe tradurre la poesia in immagine, ma il risultato appare decisamente confuso e vertiginoso. La mano di Baydarov non è tanto sapiente da potersi permettere un esperimento di questo genere e l’opera si perde in una miriade di rigagnoli senza mai ricondursi all’affluente principale. I personaggi non possiedono una propria individualità né un proprio nome, lo spettatore non viene messo al corrente di nulla, gli sceneggiatori non si sentono in dovere di illustrare un contesto. La trama si lascia intuire soltanto per vie traverse, i pochi dialoghi presenti diventano via via più criptici, il pubblico viene abbandonato a sé stesso come Davud nel tentativo di completare la sua scalata metafisica. La totale assenza di primi piani e di contatti che possano definirsi reali trasforma il film in una sorta di pamphlet filosofico, il soggetto e la cinepresa si annullano di fronte alla natura madida di pioggia e ai passi sempre più lenti e incespicanti del protagonista immerso nella mota. Esattamente come fa il ragazzo una volta terminata l’iniziazione, anche la pellicola ritorna alla concretezza solo quando è troppo tardi: l’incipit e la conclusione sono gli unici momenti davvero tangibili. Il resto è come se avvenisse su un pianeta che non siamo in grado di raggiungere: l’effetto è frustrante e il percorso, in ogni caso, rimane aperto.


CAST & CREDITS

(In Between Dying); Regia: Hilal Baydarov; sceneggiatura: Hilal Baydarov; fotografia: Elshan Abbasov; montaggio: Hilal Baydarov; interpreti: Orkhan Iskandarli (Davud), Rana Asgarova (sposa), Huseyn Nasirov (Gusi), Maryam Naghiyeva (madre di Davud), Kamran Huseynov (Isa), Samir Abbasov (Musa); produzione: Ucqar Film (Hilal Baydarov, Elshan Abbasov), Splendor Omnia Studios (Carlos Reygadas), Louverture Films (Joslyn Barnes); origine: Azerbaijan, Messico, USA 2019; durata: 88’.


Enregistrer au format PDF