X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Incontro con Gianni Amelio e Antonio Albanese

Pubblicato il 6 settembre 2013 da Giovanna Branca


Incontro con Gianni Amelio e Antonio Albanese

Venezia, 4 settembre 2013. Abbiamo incontrato Gianni Amelio e Antonio Albanese per parlare di L’intrepido, presentato in concorso nel settantennale del Festival

Ci potete dire qualcosa della parte del film girata in Albania?

Antonio Albanese: Mi sono emozionato perché sin da bambino, io che faccio Albanese di cognome, mi chiedevo come fosse l’Albania. Poi finalmente grazie a quest’occasione siamo andati una settimana a Tirana e tre giorni ai confini col Kosovo per girare la scena della miniera, ma ho avuto modo di girare anche nel resto del paese. La cosa curiosa che abbiamo trovato lì,e che mi ha un po’ spaventato, è che molti albanesi mi riconoscevano perché hanno vissuto in Italia, ma sono poi tornati. Perché dicevano: noi in Italia con 1000 euro non riusciamo a vivere, qui con 400 euro si. Ed era gente non con un mese ma con 10 anni di esperienza in Italia. Anche a Tirana passeggiando per la città ne ho incontrati parecchi; una coppia giovane mi ha raccontato proprio questa sconfitta: loro hanno fatto ritorno a Tirana perché in Italia avevano fallito.

Gianni Amelio: L’Albania può anche essere considerata un paese straniero e basta, non un posto specifico ma un altrove dal quale si ricomincia da capo. Perché Antonio (Pane, il protagonista del film interpretato da Albanese) scappa dall’Italia. C’è un’inquadratura molto particolare, anche molto antica, che abbiamo visto centinaia di volte nei film muti: un uomo che si allontana verso l’orizzonte con il nero che stringe su di lui. Antonio ha un taglio netto con i compromessi, con le trappole con cui ogni giorno è costretto a fare i conti. E quando tocca il fondo, quando vede che il lavoro che apparentemente sembrava quello più dignitoso – quello che addirittura lo metteva in giacca e cravatta – era in realtà il più sporco, allora non trova altra soluzione che scappare e ricominciare, da sottoterra addirittura. Perché fa il lavoro più terribile del mondo: il minatore. La miniera è un’esperienza allucinante, anche per un visitatore.

Antonio Albanese: Vi racconto un’esperienza privata a proposito della miniera. Io avevo uno zio che amavo profondamente, che si era fatto un anno di campo di concentramento e 25 anni di miniera di carbone in Belgio, a 800 metri sottoterra. Quando raccontava del campo di concentramento non piangeva, ma quando raccontava della miniera si. Per i cinque anni dopo la fine dell’esperienza in miniera ad ogni bagno e ad ogni doccia gli usciva ancora della polvere dai pori della pelle. Sono di quelle cose che si possono anche raccontare precisamente, ma non si riesce coomunque neanche immaginare ciò che si prova. Per questo quando ci siamo avvicinati alla miniera io mi sono molto emozionato. Come Antonio Pane avevo paura di un attacco di panico, perché è un luogo molto lontano dal nostro benessere, dalla nostra fortuna.

A proposito della scena di cui si parlava, in cui Antonio si allontana verso l’orizzonte: forse la si potrebbe vedere come un omaggio non al cinema muto in generale ma a Tempi moderni in particolare, anche in relazione alla sequenza della lavanderia. Solo che rispetto a Tempi moderni il protagonista non è accompagnato dalla ragazza. Come mai Amelio ha una visione così cupa delle nuove generazioni? E come si è sentito Albanese, come attore e come comico, a mettere in scena un omaggio a Chaplin?

Gianni Amelio: Io come rappresentante di una certa generazione mi sento in colpa. La mia generazione dovrebbe sentirsi in colpa perché è forse quella che ha fatto di peggio... Non so se quella che è venuta dopo di me ha fatto danni ancora maggiori, però la domanda che uno si pone è: che mondo abbiamo dato e diamo a chi ha vent’anni oggi? E allora nel film almeno, ma anche nella vita, io penso che un Antonio Pane, armato di una saldezza morale, faccia meno fatica a vivere che non invece due ragazzi di 20 anni che non sono così strutturati. Sono più fragili. Ed allora ecco che sia Lucia (Livia Rossi) da una parte che Ivo (Gabriele Rendina) dall’altra reagiscono alla vita in una maniera tremenda. Perché non hanno le armi per affrontarla. Uno dei due non ce la fa, l’altro ce la fa solo con lo sforzo più grande che possa fare un padre, che è quello di mettersi fisicamente nei panni del figlio: c’è un adulto che fisicamente si deve calare nelle esperienze di un ragazzo che non sa come agire. Serve che i giovani ricevano un esempio, perché alle volte le parole non bastano, o meglio il giorno dopo si dimenticano. I gesti invece sono importanti perché incidono nel profondo. “Mettersi nei panni di”: questo è un po’ l’altro tema del film, e Antonio ha questo coraggio. Il tema vero del film non è un uomo che non trova lavoro e fa il rimpiazzo, questa è solo la parte visibile dell’iceberg. Poi c’è anche la parte che sta sott’acqua, che è la parte più importante. Vale a dire che cosa si può dare in eredità a chi hai messo al mondo ed è più fragile di te.

Albanese: La scena chapliniana non l’ho girata a quella velocità e nella scena in cui mi avvio lungo la strada in realtà non vado via: scappo. Le citazioni sono state poi una scelta a posteriori di Gianni. Piuttosto, quando costruivamo la scena del grattacielo, mi sono rivisto un po’ in Buster Keaton. Un po’ perché io, per una serie di motivi, conosco più lui: ho una sorta di attrazione per quella sorta di apparente fissità, che mi ha sempre affascinato.

Amelio: Comunque è ovvio che sul momento non abbiamo pensato: quello è Chaplin, quello è Keaton. Sono cose che si realizzano col senno di poi. Perché il cinema è istinto, soprattutto credo per Antonio e per loro, Livia e Gabriele, che sono giovani. La gioia di lavorare con queste tre creature è stata proprio il fatto che, pur di diversa ascendenza, professionalmente parlando, sono state dentro ai personaggi, sono venute loro incontro. E credo, interpreto il pensiero di tutti e tre, che in realtà non si siano limitati ad interpretare: sono entrati un po’ più dentro e hanno regalato ai personaggi scritti la vita, il respiro, e dovrebbe succedere sempre così.

Qual è invece il lavoro che è stato fatto da un punto di vista architettonico su Milano?

Antonio Albanese: Negli ultimi quattro anni circa Milano in alcune zone è completamente cambiata, in verticale, in orizzontale. Ci sono dei quartieri come Porta Nuova e la zona fiera – vuoi per l’Expo, vuoi per altri motivi – che io da frequentatore ho visto veramente trasformarsi. La prima volta che siamo andati a fare il sopralluogo sul grattacielo che apre il film anche io, dal ventiquattresimo piano, sono rimasto stupito: si vedono delle cose che non avevo mai visto prima.

Gianni Amelio: Non è un caso che il film cominci con l’inquadratura di un cantiere, perché la città sarà forse in futuro un qualcosa che non riusciamo a immaginare. E’ tutto precario, anche quello che dovrebbe essere stabile come un palazzo, una casa, un ponte o una strada. E questo è voluto. Io non andavo a Milano da tanto tempo: ho fatto un film lì 30 anni fa e sono tornato per l’Intrepido. Però sono ovviamente due città diverse, perché la prima era una Milano classica, la Milano di Piazza del Duomo, non volevo nemmeno sottolineare un certo aspetto della città. Qui invece è stata forse la città stessa che si è presentata in un certo modo. E’ una città che forse sorprende gli stessi milanesi

Albanese: Assolutamente, in certe zone è così. Io sento sempre dire da milanesi: “ma l’hai visto?”. Il grattacielo in cui noi abbiamo girato un anno e mezzo prima non c’era, e sono 26 piani. Il grattacielo di Unicredit là di fronte l’hanno ricostruito in un anno e mezzo, ed è il grattacielo più alto d’Italia. Vuoi anche che dipenda da questa fretta per l’Expo, da questa eccitazione per cui hanno lavorato giorno e notte. Comunque uno va via, magari va a fare l’Erasmus, per tornare e trovare una città diversa.

Amelio: Milano è la più cinese delle città italiane. In Cina uno in tre mesi vede un grattacielo già fatto. Quest’idea del lavoro compulsivo Milano l’ha sempre data in qualche modo, ma oggi la da in modo molto più visibile, per cui mi ricordava un po’ Shanghai, soprattutto nell’edilizia.

Il lavoro non è forse diventato un modo per esercitare il potere, un mezzo di ricatto? I datori di lavoro nel film sono uno peggio dell’altro.

Gianni Amelio: E’ proprio così, e non solo in Italia ma nel mondo. Quando Antonio crede, perché glielo fanno credere, di essere non dico arrivato, ma di “essersi messo il vestito”, ha toccato il fondo. Perché ha a che fare con una serie di mascalzoni, a dire poco. Gli dicono nel film che il segreto della felicità è fare contenti tutti, come il papa e come la nazionale quando vince. Più cinico di così si muore.

Antonio Albanese: Però è curioso come negli ultimi 20 anni sia cambiato tutto. Io nel ’97 ho scritto con Michele Serra un testo teatrale intitolato Giù al Nord che raccontava l’opposto: l’esasperazione del lavoro, che noi presentavamo con attenzione. Si stava perdendo la famiglia, il rapporto emotivo, l’educazione al lavoro. Ed era tutto nato dalla frase di un signore che aveva detto: “io sono una brava persona, lavoro 16 ore al giorno”. Per noi non è una brava persona uno che lavora 16 ore al giorno. E’ questo ad essere curioso e interessante: sono passati una ventina d’anni, ma è cambiato tutto completamente. Noi all’epoca siamo andati a visitare alcune aziende, ad esempio nella provincia di Belluno, e c’erano più operai che macchinari. Quando poi siamo tornati mi sono ritrovato solo il capo officina, il figlio e il principale, con 40 macchine abbandonate. Perché non c’è stata da parte loro l’attenzione per il lavoro. I figli si sono dedicati ad altre cose.

Gianni Amelio: E’ proprio in questa linea che dobbiamo interpretare il ruolo del rimpiazzo, che è l’esasperazione estrema. Oggi in conferenza stampa qualcuno mi ha chiesto seriamente se esiste la professione del rimpiazzo in Italia. A me è venuto un brivido: come è possibile che qualcuno possa pensare che il paradosso del film sia la fotografia della realtà? Eppure qualcuno ci ha pensato, quindi siamo arrivati molto al di là del precariato


Enregistrer au format PDF