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Incontro con John Hurt

Pubblicato il 11 novembre 2013 da Giovanna Branca


Incontro con John Hurt

Roma, 9 ottobre 2013. Il grande attore inglese - a Roma per presentare il film Snowpiercer di Bong Joon-ho - incontra il pubblico dell’Auditorium.

Lei è qui con il film Snowpiercer, ci può dire come ha deciso di prendere parte al progetto?

Ho deciso nel momento in cui ho incontrato Bong Joon-ho, il regista. Da subito ho avuto la percezione di trovarmi di fronte ad un uomo di cinema, un vero regista, una sensazione che non ha niente a che vedere con l’intelletto. E la mia idea iniziale è stata confermata sul set: Bong gira solo quello che vuole vedere, non fa una miriade di inquadrature da diversi punti di vista, sa esattamente cosa vuole girare e come vuole farlo. Una rara specie di registi la sua.

In Italia ed in tutto il mondo è forte il mito della recitazione inglese, di cui lei è uno dei più grandi esponenti.

Credo che la recitazione inglese per il cinema sia enormemente migliorata; quando ho iniziato io non era un granchè. Finchè poi Alec Guinness non è riuscito a portare sullo schermo le stesse grandi interpretazioni che lo contraddistinguevano a teatro. Il suo Fagen in Oliver Twist è una delle interpretazioni più iconiche a cui riesco a pensare, non potrei immaginare nessun altro in quel ruolo, che ha avuto una grande influenza sui i miei esordi come attore. Prima di lui gli attori inglesi sullo schermo erano troppo diretti.

Come è nato in lei il desiderio di recitare?

Quando avevo nove anni ho fatto una recita scolastica delle elementari: interpretavo una bambina nell’Uccellino azzuro di Maeterlinck, e ho avuto la sensazione di essere nel posto giusto. E’ una sensazione meravigliosa che non mi ha mai abbandonato. I miei genitori amavano il teatro, ma non riuscivano a venire a patti col fatto che io fossi “uno di loro”, un teatrante. Nell’Inghilterra post bellica di allora le cose stimate più importanti erano la rispettabilità e la sicurezza, e nessuna delle due si poteva trovare nel mondo del teatro. Ad ogni modo mi hanno consentito di frequentare la Scuola D’Arte. Poi a Londra ho conosciuto due ragazze australiane che facevano ballo spagnolo; un giorno mi hanno invitato ad una festa con altri artisti e mi hanno detto che avrei dovuto fare l’attore. Si sono occupate loro di tutto: mi hanno compilato la richiesta per entrare nella Saint Martin’s School of Art.

Quali erano i suoi gusti cinematografici in quegli anni?

Mi sono appassionato alla Nouvelle Vague grazie a Francis Horovitz, una mia amica poetessa, che mi ha anche fatto scoprire Antonioni. Amavo molto Truffaut: andai a vedere Jules e Jim per sette domeniche consecutive, come un pellegrino. All’epoca pensavamo tutti che la Nouvelle Vague avrebbe presto attraversato la Manica, ma non è mai accaduto; ancora la aspettiamo! Noi inglesi avevamo una fiorente industria cinematografica prima di venire soggiogati dagli americani. Non intendo con questo parlar male del cinema statunitense, semplicemente non è il nostro.

Quali sono i registi a cui direbbe sempre di si?

Ce ne sono due che non metterei mai in discussione, ed ho lavorato con entrambi: Jim Jarmush e Lars Von Trier. Non ti chiedono mai di leggere una sceneggiatura perché non ne hanno una: è il loro modo di lavorare.

Una delle sue interpretazioni più amate è quella in Elephant Man. E’ triste pensare che è impossibile riconoscerla in quel film?

C’è un aneddoto che mi ricordo a questo proposito: per il mio ruolo come John Merrick venni candidato all’Oscar quell’anno, ma non avevo molte speranze di vincere dato che rivaleggiavo con De Niro e la sua performance in Toro scatenato. Chiesi ad uno dei produttori del film cosa ne pensava e lui mi rispose che effettivamente non credeva che io avessi molte chance, ma non per via di De Niro quanto perchè nessuno avrebbe potuto riconoscermi... e io che pensavo che proprio quello fosse il punto di forza!

Qual è il suo metodo?

Generalmente è lo stile del film a dettarmi il modo di lavorarci. Alle volte c’è a malapena bisogno di una preparazione, mentre altre c’è bisogno di una gran quantità di lavoro. Dalla mia risposta potete dedurre che non sono un attore del Metodo, non ho alcun metodo...

Ci può parlare della sua esperienza con Peckinpah in The Osterman Weekend?

Sam era terribile, mi trattava malissimo. Mi criticava, mi diceva cose come “ma perchè cammini così veloce in questa scena?”, ed era tremendo. Poi un giorno lo feci ridere, e da quel momento fu impossibile che sbagliassi qualcosa ai suoi occhi.


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