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INCONTRO CON VINCENZO MARRA

Pubblicato il 18 ottobre 2004 da Edoardo Zaccagnini


INCONTRO CON VINCENZO MARRA

Classe 1972, napoletano, autore rigoroso a metà fra il documentarismo e storie di finzione nelle quali la chiave etica informa protagonisti presi direttamente dal quotidiano. L’Osservatorio italiano riprende la sua inchiesta da Vincenzo Marra, alla ricerca di un cinema italiano più lontano dalla grande distribuzione. A ogni occasione si è parlato per i suoi film di neorealismo, viscontismo, pedinamento, Pasolini. Accostamenti lusinghieri dai quali Marra prende però le debite distanze per spiegarci come, di là dai modelli e dai maestri, occorra vedere nei suoi film uno sforzo riguardante la costruzione di personaggi pienamente e drammaticamente coinvolti nella realtà contemporanea.

I tuoi personaggi sembrano schiacciati da un destino sul quale non riescono a incidere in nessun modo. È così che la vedi?

No, non è così. I protagonisti dei miei due film sono persone che, pur pagando sulla loro pelle, fanno scelte positive. Le persone che non hanno morale, secondo me, sono quelle che hanno potere, che hanno la possibilità di cambiare le cose, ma non lo fanno. Sia i pescatori di Tornando a casa che la famiglia di Vento di terra, invece, non cadono nella malavita, semmai la subiscono. La condizione di precarietà assoluta in cui vivono vuol dire assenza dello Stato, vuol dire polizia che si volta da un’altra parte (perché anche lei abbandonata a se stessa), vuol dire impossibilità di far arrivare un’ambulanza in casa qualcuno sta morendo. Nei miei film quindi parlo di persone, che pur vivendo in quartieri dove la sensazione è quella di essere abbandonati a se stessi, mantengono sempre scelte positive. Non cedono, sfuggono a quella facile, e un po’ stereotipata, legge cinematografica che associa il disagio e le difficoltà con la camorra, la mafia la ‘ndrangheta. I miei personaggi ci provano. Poi c’è una realtà, che va ben oltre il cinema, e che dice che se nasci in un posto hai meno possibilità di chi nasce in un altro posto. Ecco, il film racconta di persone che non hanno la possibilità di “tenere la botta”, di persone come dico spesso, che non hanno un paracadute, e che davanti a un evento drammatico, imprevisto, non hanno la possibilità di tenere l’urto. Parlo di gente che è precaria nel vero senso della parola. Non dimentichiamoci che in Italia, quando abbiamo bisogno di qualcosa, la prima domanda che ci viene in mente, è se conosciamo qualcuno. Quando non hai nessuno, la strada è obbligata, anche un evento banale, apparentemente risolvibile come la rottura di una gamba, si ingigantisce, e si rischia di affogare. Però ai tuoi personaggi capita qualcosa di assai più drammatico che rompersi una gamba: in Tornando a casa la moglie del pescatore muore “per sbaglio” in una sparatoria di ragazzini; in Vento di terra il ragazzo di Secondigliano scopre la malattia contratta in Kosovo proprio quando tutto sembra tornato a posto... Ma è la realtà in cui vivono che comporta questo rischio. I pescatori del primo film, sono costretti a pescare in acque internazionali e per ciò sono esposti agli spari. Ti può andare bene o andare male, ma una volta colpiti, la barca si rompe e si verificano situazioni che portano a una guerra tra poveri in cui le possibilità dell’individuo sono molto limitate. Ora, esistono dei modi per uscire da questa situazione, e uno, ad esempio, è quello di vendere droga. In certi quartieri di Napoli vendere eroina significa assicurarsi ogni giorno due-trecento euro. Senza entrare in mille discorsi, o essere frainteso, ma in un certo senso, uno può dire: “Perché non farlo?”. I miei personaggi resistono a questa “costrizione” perché hanno un’etica. Sbagliano, come sbagliamo tutti, ma hanno la forza di correggersi. Poi a me non va di essere bugiardo e di dire “e vissero tutti felici e contenti”. Vincenzo di Vento di terra avrebbe potuto fare i bagagli e andare in Australia, ma preferisce diventare uomo, caricarsi sulle spalle il suo destino ed affrontarlo. Lotta, si inventa un doppio lavoro, compie delle scelte precise.

I protagonisti dei tuoi film, in un certo senso, sono gli stessi ragazzi che segui nel tuo documentario “EAM - Estranei alla massa”...

Estranei alla massa è un lavoro che purtroppo hanno visto in pochi, pur avendo vinto il premio Pasolini. Là, seguo sette ragazzi di un gruppo storico del tifo organizzato del Napoli calcio, un gruppo anche tosto, che esiste dal 1979 e che conta al suo interno membri di generazioni diverse. Si chiama “Fedayn”, e accanto allo striscione è appunto scritto “Estranei alla massa”. Non ho dovuto faticare molto per trovare un titolo. Nel documentario, con una telecamerina, e grazie al montaggio, racconto la giornata lavorativa di ognuno di loro, il giorno prima di una lunga trasferta nel nord est italiano, a Treviso per l’esattezza, e poi la trasferta stessa. Ho cercato di fare in modo che l’occhio elettronico si vedesse il meno possibile, e che si avesse l’impressione di esserci e guardare. Ho voluto abbattere certi luoghi comuni che girano intorno a questa realtà, mostrare l’intelligenza che ho riscontrato nelle parole di questi ragazzi, la forza delle loro opinioni... Ma ho voluto anche andare aldilà dei luoghi comuni che esistono nel rapporto tra Sud e Nord: basta vedere lo stadio del Treviso...

In Vento di terra ci sono ricorrenti vedute aeree che rendono le città schiaccianti, minacciose. In questa prospettiva vengono meno anche gli elementi peculiari che distinguono ad esempio Napoli da Milano?

Secondo me Vento di Terra avrebbe potuto essere girato in qualsiasi periferia di qualsiasi città del mondo. Parigi, Singapore, per dirne un paio. Perché in una metropoli è più facile trovare una demarcazione netta tra chi ha una certa situazione e chi invece è abbandonato al proprio destino. Pensate che l’idea del film mi è venuta proprio passeggiando per Manhattan. Io viaggio da quando avevo otto anni e le contraddizioni del mondo le ho avuto modo di vederle sempre e dappertutto.

Una cosa che colpisce molto del tuo film è lo stile secco, senza alcuna sottolineatura, con cui giri anche le scene più drammatiche.

A me non piace la pornografia, e non mi riferisco al sesso. Preferisco fermarmi per una forma di rispetto verso il dolore dei personaggi. Proprio per non cercare un effetto attraverso questa forzatura. Poi la mia esperienza mi insegna che una forma di regia rispettosa, paradossalmente, tocca e colpisce lo spettatore meglio di ogni abuso.

Hai qualche teoria particolare sul suono? Nei tuoi film sembra molto importante il dosaggio dei rumori e del silenzio.

Sì, dedico una grande attenzione al suono, direi maniacale come in molte altre cose. Non mi piace l’abuso di parole, e ritengo molto importanti anche i silenzi, perché possono dire tantissimo. Anche con la musica sto molto attento. Tra Vento di Terra e Tornando a Casa, ci sono in tutto 8 minuti di musica, non di più. Non amo enfatizzare le scene con un sottofondo musicale. Se la uso preferisco annullare tutte le altre piste sonore e lasciare solo immagini e musica. Sempre per evitare certe effetti.

Come sei arrivato al cinema?

Un po’ per caso. Io scrivevo, per passione. Ho sempre scritto. Poi mi sono accorto che scrivevo per immagini, e dopo aver fatto il fotografo sportivo e aver partecipato a corsi che mi sono serviti più che altro per accostarmi alla materia, a fare delle verifiche su me stesso, ho iniziato a scrivere e girare film.

I tuoi film hanno un innegabile sapore neorealista, a tratti sembrano documentari. Come arrivi alle immagini che vediamo sullo schermo? Ad esempio quando scrivi hai già in mente i luoghi, gli attori?

No assolutamente. C’è un grande regista che diceva: “Prima vedo una porta, poi ci costruisco sopra il film”. Io faccio esattamente la cosa opposta. Prima immagino la porta, poi la vado cercare. E così per tutte le cose, gli attori, gli ambienti. Li vado a cercare dopo aver scritto e immaginato tutto sin nei dettagli. Molte persone mi hanno domandato, ad esempio, come facevo a conoscere così bene l’ambiente delle caserme che è descritto in Vento di terra, ma io non ne sapevo niente, ho inventato tutto.

Nel corso della lavorazione fai molte modifiche?

Sul set nessuno ha un’idea del film che verrà fuori, a parte me. Gli attori ricevono le battute giorno per giorno. Quest’anno hanno potuto vedere il film soltanto a Venezia. Comunque, alla fine, nonostante tutto quello che c’è tra l’idea e la sua realizzazione, il risultato finisce per somigliare moltissimo al punto da cui ero partito.

Adesso a cosa stai lavorando?

Sto iniziando a montare un documentario sulla Palestina...

[ottobre 2004]


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