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Intervista a Gabriele Albanesi

Pubblicato il 7 luglio 2007 da Simone Isola


Intervista a Gabriele Albanesi

Inizia con quest’intervista una serie di speciali su alcuni filmaker della scena indipendente italiana.

Gabriele Albanesi sta completando la post produzione de Il bosco fuori, lungometraggio horror girato completamente in digitale di cui è autore e sceneggiatore unico, e destinato ad uscire a breve nel mercato home video. Al film, prodotto dalla Nero film di Gregory J. Rossi, hanno partecipato Sergio Stivaletti, per gli effetti speciali, ed Enrico Silvestrin ed Elisabetta Rocchetti accanto ad altri attori esordienti. Il progetto ricorda l’esperienza di Radice quadrata di tre, l’horror friulano girato a bassissimo costo da Lorenzo Bianchini, diventato un cult ed ora edito in Dvd.

Come è nata l’idea de Il bosco fuori?

In origine c’era un breve racconto che parlava di una ragazza che, per sfuggire a uno stupro, finiva in una casa dove due coniugi vivevano insieme a un bambino deforme, che poi finiva per cibarsi di lei. Insomma una sorta di spunto alla Phenomena misto ad Eraserhead.
Parallelamente stavo scrivendo anche una storia più legata al bosco, in stile Blair Witch Project che era uscito da poco e che mi aveva molto colpito, su un ragazzo e una ragazza che si imbattono in alcuni freaks che vivono in un autobus abbandonato in mezzo al bosco. E infine avevo scritto anche un terzo incipit di racconto che era quello che tutt’ora è il prologo del film, che difatti fa un po’ storia a sè.
Quando poi ho deciso di scrivere un lungometraggio, ormai più di cinque anni fa, tutti e tre questi racconti embrionali vi sono finiti dentro e si sono fusi insieme, assumendo una forma unitaria e del tutto nuova. La sceneggiatura comunque ha subito poi nel corso degli anni numerose modifiche e revisioni, anche piuttosto sostanziose. Ad esempio, nelle prime stesure, al posto dei tre coatti romani vi era un gruppo di bikers in stile Hell’s Angels! Comunque l’intenzione di base era quella di realizzare un horror estremo e violento, in totale libertà, che colpisse veramente duro proprio come gli horror indipendenti degli anni 70 in stile Non aprite quella porta e L’Ultima casa a sinistra. Lo stimolo principale era quello di fare un horror come nessuno aveva più il coraggio di fare, soprattutto in Italia.

Quali sono gli autori che ti hanno più influenzato nella tua formazione?

Gli autori che più mi hanno influenzato negli anni della formazione sono stati Kubrick, Cronenberg, Sergio Leone, Tarantino, Nanni Moretti, tutto il gruppo della Nuova Hollywood Coppola-De Palma-Scorsese-Spielberg, i film provocatori di Marco Ferreri, le opere prime autoprodotte di Raimi, Peter Jackson e Robert Rodriguez, e poi David Lynch, Polanski, moltissimo Dario Argento, anche film italiani eccentrici come Lo zio di Brooklyn o Escoriandoli che all’epoca mi colpirono molto.

Raccontami come è stata l’esperienza con Stivaletti.

E’ stata un’esperienza molto bella e inaspettata. Non solo Sergio ha accettato con nostra sorpresa di prendere parte al progetto, ma durante i giorni di lavorazione era quasi sempre presente sul nostro set e si occupava degli effetti speciali in prima persona, senza delegare agli assistenti come avrebbe potuto benissimo fare. Lui stesso ci ha raccontato infatti che si è trovato talmente bene sul nostro set da voler essere presente il più possibile. E sono rimasto molto colpito non solo dalla sua disponibilità, ma anche dall’estrema pazienza e dall’umiltà che ha dimostrato più volte nel mettersi al completo servizio delle riprese, senza mai assumere atteggiamenti di superiorità, lui che a tutti gli effetti è un Maestro. Delle doti, queste, che penso siano proprie solo dei veri e grandi professionisti. Insomma, per me Sergio Stivaletti si è rivelato come una persona umanamente sorprendente, e lavorare al suo fianco è stata un’esperienza irripetibile.

Quali sono state le tue esperienze precedenti a Il bosco fuori?.

Prima del Il Bosco fuori avevo realizzato alcuni cortometraggi sempre di genere thriller-horror, dei quali uno in pellicola prodotto dai Manetti Bros e da Luca Bigazzi, L’armadio, e uno in HD prodotto da Davide De Santi, Mummie.
Ho poi frequentato spesso i set dei videoclip dei Manetti Bros, come assistente volontario, e ho scritto alcune sceneggiature per lungometraggio che ancora devono vedere la luce. Mi sono anche occupato per un breve periodo di critica cinematografica sulla rivista "Zabriskie Point".

Il film, è stata una mia impressione, mi è sembrato essere stato “pensato” in digitale, oltreche girato. E’ la stessa impressione che ho avuto guardando Piano 17. Ti ritrovi in quello che dico? Se sì, pensare un film in digitale comporta un ampliamento dei confini espressivi, o una limitazione?

L’utilizzo del digitale ha servito una concezione stilistica generale improntata alla scorrettezza e a tutto ciò che viene ritenuto sconveniente dal manuale del bravo regista italiano. Il film ha uno stile molto provocatorio, molto naive, molto da guerriglia. Il fatto che è stato girato in tre settimane, con uno stile furioso e aggressivo, ha reso il digitale quasi una scelta estetica obbligata, oltre che ovviamente economica. In questo senso si può dire che ho usato l’HDV, un nuovo formato della Sony che coniuga alta definizione del fotogramma con una maneggevolezza tipica delle minidv, come una mitragliatrice per aggredire lo spettatore. Tuttavia penso che lo stile di un regista rimanga sempre lo stesso, al di là del formato che si utilizza. E quindi non credo che la mia tecnica di regia sarebbe cambiata sostanzialmente se avessi usato la pellicola al posto del digitale. Semplicemente, il digitale era in questo caso il mezzo più adatto per il tipo di film che intendevo realizzare.

Ascoltando i tuoi interventi, l’unica elemento su cui non sono d’accordo è che il genere possa convivere accanto ad un cinema di matrice sociale. Credo, infatti, che il genere possa avere in sè un’altissima risonanza sociale. Certo, più sottile, sfumata nelle formule e negli schemi. Ma tu sai meglio di me che gli schemi e le formule vanno risemantizzate, modificate, altrimenti il genere si inflaziona, scende di qualità e muore. Per farti un esempio (un pò banale ma necessario), pochi film mi hanno parlato del ’68 come La notte dei morti viventi...

E’ esattamente così. Anch’io credo che il miglior cinema horror è quello che possiede dei risvolti e dei sottotesti sociali. Tutto l’horror anzi, in quanto favola e allegoria, è una metafora per un discorso più ampio sull’uomo e sulle sue paure, e su quelle che sono le paure contemporanee. Pensiamo al cinema di Romero, o a quello di Cronenberg, che sono due cineasti molto teorici. Pensiamo allo stesso Non aprite quella porta, che getta uno sguardo antropologico sulla mentalità del Texas più profondo ma che più in generale è una riflessione sulla famiglia che genera mostri. Io stesso con Il Bosco fuori non ho voluto realizzare un semplice popcorn-movie, in quanto ho cercato di affrontare, filtrando il tutto attraverso il genere, temi legati alla famiglia e al rapporto di coppia. Anche la violenza che ho rappresentato non è mai cinicamente compiaciuta, ma reca con sè una matrice che credo profondamente morale, necessaria. Il bagno di sangue che affronta la protagonista non è altro che un percorso di espiazione delle proprie colpe e infine di redenzione, e anche un diventare donna in quello che è il finale del film.


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