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INTERVISTA A GIOVANNI COLUMBU

Pubblicato il 5 marzo 2007 da Edoardo Zaccagnini


INTERVISTA A GIOVANNI COLUMBU

Giovanni Columbu, autore del film Arcipelaghi: il più radicale nell’uso del dialetto e nella scelta dell’ambiente di cui parlare. Lo abbiamo intervistato per allargare i pareri su questo approfondimento del cinema sardo. Con lui abbiamo insisitito su questi film belli dai forti aspetti in comune…

G.C: Non tutti i film sono di ambientazione rurale. Ed anche nelle altre regioni ci sono film con una caratterialità forte e comune. Può darsi che la fisionomia della Sardegna porti a far somigliare i film in maniera particolare. Ma la Sardegna ha ancora molto da raccontare ed io ritengo che essa, con le sue caratteristiche, si presti a raccontare bene degli archetipi che appartengono a tutti. Sicuremente il realismo è il genere che più appartiene alla nostra cultura cinematografica: abbiamo un modo di raccontare che si presta molto alla documentazione. Però anche qui mi sento di precisare che questa non è una caratteristica che appartiene esclusivamente (o in forma prioritaria) al cinema sardo. E’ un canone narrativo che esiste da molto tempo e che Rossellini ha teorizzato in maniera netta. Però aggiungo che in Sardegna il tutto è accompagnato da una grande passione per il luogo.

La vostra sardegna sembra radicata ad un peso della tradizione…

G.C: Io credo che nei nostri racconti ci siano dei fatti e dei personaggi tendenti a diventare altro, simboli validi per tutti gli esseri umani.

La figura della donna e della madre….

G.C: Io non faccio inchieste, racconto storie. Ma la mia impressione è che le donne sarde abbiano un temperamento molto forte. Sono le forze che operano nelle retrovie e che poi prendono le decisioni. Il persoanaggio donna/madre del mio film l’ho costruito bello e vero per se stesso. Poi corrisponderà sicuramente a molte altre donne, sarde e non solo.

Notiamo che il perdono soccombe di fronte alla vendetta e la giustizia è vissuta come un fatto individuale.

G.C: Io non credo che i sardi abbiano qualche naturale predisposizione alla giustizia privata. Credo che abbiano solo desiderio e bisogno di giustizia. Oggi non siamo più disposti a tollerare nulla, dal piccolo sopruso sul lavoro ad altro. Immaginiamoci di fronte a fatti più grossi ed inseriamoci dentro un contesto in cui la legalità è un fatto marginale. Il fatto è che laddove la giustizia è efficiente l’individuo viene sollevato, se al contrario i cittadini vengono lasciati soli possono maturare certi modi culturali di fare le cose. Per ciò io credo che tutti i discorsi sulla vendetta sarda non abbiano per nulla a che fare con l’antropologia.

Una domanda che torna: l’uso del dialetto…

G.C: Per quel che mi riguarda la scelta è di tipo espressivo. Non è un atto d’amore per quella lingua e nemmeno un fatto ideologico. Quando ho iniziato a lavorare ad Arcipelaghi non avevo intenzione di adoperare il sardo. Pensavo solo di introdurne qualche parola. Poi, mentre giravo, mi sono reso conto che le persone erano diverse quando parlavano in italiano e tornavano ad essere se stesse e spontanee quando si esprimevano nella loro lingua. La voce cambiava, diventava più profonda e forte. Cambiava anche il viso. Il fatto è che l’identità linguistica è legata a quella personale. Il nostro film capostipite è quello di De Seta, Banditi a Orgosolo. Il film è in italiano ma la cosa curiosa è che molti se lo ricordano in sardo. In realtà è stato doppiato successivamente ma era stato girato in sardo. Quindi tutto il linguaggio corporeo sardo è rimasto e questo ha contribuito alla produzione dell’immaginario spettatoriale secondo cui il film è in lingua sarda. Poi De Seta non se l’è sentita di lasciarlo in lingua (vedi Intervista a Sergio Naitza, ndr) ma ha fatto in modo che il sonoro vocale fungesse da didascalia per le immagini. In Banditi a Orgosolo, film per certi versi muto, l’italiano non sostituisce il sardo: lo esplica.

C’è molto silenzio nel tuo film, come negli altri film sardi.

G.C: Personalmente vorrei lavorare ancora di più sui silenzi, li adoro. Il mio cinema vuole essere semplice e geometrico, considero le parole strumenti precisi e poco invasivi da utilizzare solo quando sono essenziali. Ora io sto lavorando ad un film sul vangelo. Trovo molto interessante la possibilità di lavorarlo in Sardegna perché qui la gente, soprattutto quella della campagna, possiede un forte senso della verità. Pur lavorando su un testo così astratto, molto lontano da una verosimiglianza ordinaria, mi sono reso conto che i risultati sono molto confortanti. E lo sono grazie al filtro fornito dalla lingua sarda, che interviene con una sua inevitabile verità.

Attori non professionisti…

G.C: Credo che i personaggi di Arcipelaghi potessero riuscire meglio se interpretati da non profesionisti. Sono certo che per me è stato più facile dargli forma in questo modo. I miei non professionisti sono persone così vere e così schiette che il rischio di incappare in qualcosa di inautentico era davvero basso. Poi sono perfettamente cosciente che al mondo esistano attori straordinari. Non mi piace però la commistione di attori professionisti e non profesionisti. Non credo nel professionista al centro e i persoanggi ‘veri’ intorno.

Parliamo di produzione e distribuzione in Sardegna…

G.C: Credo che per il mio film, come per quelli di Sanna, Mereu e Pau, l’intervento del ministero sia stato determinante. E lo stesso è avvenuto per le cose fatte da Cabiddu. Per Arcipelaghi mi sono imbattuto nel classico caso di una produzione che appena fatta l’opera non si è più vista e il mio film è rimasto orfano. Nonostante abbia vinto il festival Bimbi belli, organizzato da Nanni Moretti, (rassegna di esordienti italiani in cui i premi vengono stabiliti in base ad una votazione del pubblico, ndr) il rapporto con i festival è stato disastroso, nel senso che il film ha avuto difficoltà a farsi accogliere. Se non hai un sotegno adeguato e vai a bussare ai festival, che sono queste potenti e colossali macchine pubblicitarie e promozionali che ormai lasciano poco spazio al valore dell’opera, Sei fottuto: ci sono grandi interessi non culturali. Adesso è stata approvata una legge regionale, che speriamo possa essere presto attiva, la quale dovrebbe concorrere, con alcune centinaia di migliaia di euro, a produrre tre, quattro o cinque film l’anno. Siamo tuttavia lontanti dall’avere un percorso definito ed è difficile averlo perché mancano i generi precisi, i film sono sporadici. E quei film, nella loro indipendenza, sono molto dipendenti dalle istituzioni. La strada dell’autore è spesso solitaria e avventurosa. Sarebbe bello se il cinema fosse in grado di automantenersi, anche a costo di guadagnare pochissimo. Invece ci troviamo dentro ad un’impresa assistita che sul piano economico è generalmente fallimentare. Se non è libero il cinema commerciale, non è libero neppure quello che in nome di una libertà espressiva deve chiedere i soldi a chi ha tutte altre idee. Per adesso si cerca di fare dei film. Arcipelaghi è del 2001, nel frattempo io ho fatto altre cose, ma un secondo lungometraggio non sono ancora riuscito a farlo.

Come ha reagito la Sardegna degli spettatori a questi film?

G.C: Molto bene. Anche se questo esito positivo non trova conferma nelle statistiche del botteghino, perché i piccolissimi centri non rientrano nel conteggio. E’ accaduto qualcosa di molto importante nell’ambito dell’Home video, per merito del quotidiano L’unione sarda, attraverso un’idea molto bella che è un esempio di come si possono far funzionare le cose: L’unione sarda ha fatto uscire, in allegato al quotidiano, una collana (Curata da Sergio Naitza) di venticinque film sardi, non solo di oggi. La cosa è andata benissimo ed ha fruttato un ottimo guadagno per l’editore…

Ma già i vostri film erano piaciuti alla critica…

G.C: Nessuno ha trovato i nostri film ostici. Dovunque, in Europa e nel mondo ho accompagnato il mio film, ho riscontrato favori…

Grazie ed in bocca al lupo!

Febbraio 2007

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