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INTERVISTA A LIVIO BORDONE

Pubblicato il 2 marzo 2006 da Adriano Ercolani


INTERVISTA A LIVIO BORDONE

In attesa dell’uscita del suo lungometraggio d’esordio Padiglione 22 - thriller interpretato da Regina Orioli, Giusepe Antignati, Arturo Paglia ed Elio Germano - abbiamo incontrato il regista Livio Bordone.

Tu sei anche autore del soggetto e dello script originale: da dove nasce l’idea di Padiglione 22?

Tutto è iniziato un pomeriggio di qualche anno fa, quando un amico mi ha portato a vedere S. Maria della Pietà, l’ex manicomio di Roma. Abbiamo visitato questo parco meraviglioso, una visione stupenda. E poi ce lo siamo ritrovati di fronte. Il Padiglione 22, all’epoca abbandonato. Ne sono uscito terrorizzato: è come se mi fossi ritrovato in un luogo le cui pareti erano “imbevute” della sofferenza di chi ci è stato dentro. Io sono una sorta di S. Tommaso reincarnato: non credo in niente che non possa toccare, vedere o spiegare razionalmente. Quindi aver percepito quelle presenze è stata un emozione fortissima e inspiegabile. Sono tornato a casa e ho scritto un monologo, di getto. Monologo che è rimasto nel film. Poi ho trascorso un lungo periodo con uno psichiatra, per farmi insegnare l’ABC della malattia mentale, mentre iniziavo a scrivere la sceneggiatura. Ponendomi sin dall’inizio una regola ben precisa: Padiglione 22 non è un film sui malati di mente, ma sui fantasmi: è il tentativo di ridare allo spettatore quella sensazione provata all’interno della struttura.

Il film ha avuto una lavorazione lunga nelle varie fasi? Attualmente in quale stadio di post-produzione siete?

La lavorazione del film non è stata particolarmente lunga, poco meno di un anno. Contando invece il periodo trascorso dall’inizio della scrittura a quello delle riprese, beh allora ci sono voluti quasi quattro anni per portarlo a termine. Attualmente il film è in dirittura di arrivo: siamo in fase di color correction presso la Proxima, che ha curato anche gli effetti speciali digitali. Questa è una cosa di cui andiamo molto fieri: pur essendo un “piccolo” film da un punto di vista produttivo, siamo riusciti ad avere, con la supervisione di Fabrizio Storaro, una postproduzione totalmente digitale del film, in Digital Intermediate:ogni singolo fotogramma del negativo originale del film è stato scanzionato,inserito in un computer, e la fotografia è stata “migliorata” digitalmente. Questo ha reso “Padiglione 22” un’ esperienza visiva fuori dal comune, un’innovazione tra le prime in Italia.

Quando potremo vederlo in sala?

Ad oggi non riesco ad essere preciso sulla data di uscita del film. La produzione è intenta in un lavoro febbrile di contrattazione con gli eventuali distributori, e abbiamo ricevuto parecchi inviti da numerosi festival internazionali. Quindi il futuro del film spero sia roseo, ma mi è impossibile dirti di più.

Il film sembra avere un’impronta visiva molto precisa: che tipo di progetto estetico è stato elaborato insieme al direttore della fotografia Marco Carosi? Quali sono le scelte stilistiche che avete voluto portare avanti, e come vi siete divisi il lavoro sulle inquadrature e sui movimenti di macchina?

Prima di tutto ci tengo a sottolineare che il film ha pochissimi dialoghi, è quindi prettamente visivo. Questo sia per una predilezione stilistica che nutro nei confronti dell’immagine - una sorta di ritorno ad un cinema “puro” fatto dell’unione di due fotogrammi che legati insieme “provochino senso” - sia perché il thriller è, in qualche modo, il genere del silenzio e del gioco continuo tra il vedere e il non vedere. Tra il buio e la luce. Per creare questo equilibrio, e per regalare al pubblico non tanto una storia punto e basta, ma un’ora e mezza di “esperienza emozionale”, era basilare la scelta del direttore della fotografia. E Marco Carosi è stata una scelta ottimale. Sia per la sue capacità tecniche indiscusse - è da anni stretto collaboratore di Vittorio Storaro - sia per il gusto personale di Marco per le immagini, che si fonde perfettamente col mio. Siamo partiti da uno storyboard dettagliatissimo, e poi abbiamo impostato la cura dell’immagine quasi fosse un film espressionista. Volevo che la luce ed il buio fossero parte integrante della storia, non tanto mezzi quanto protagonisti veri e propri. Questo ci ha permesso di avere un film che riesce a fare veramente paura, a darti tensione continua, senza doverlo riempire di effettacci facili e scontati. Siamo molto contenti del risultato finale, che non assomiglia a nulla di italiano visto fin’ora.

Il cast di Padiglione 22 è composto quasi esclusivamente di attori giovanissimi - su tutti la protagonista Regina Orioli ed Elio Germano: come ti sei trovato a dirigere questa “nuova leva” di promesse?

Mi preme ringraziare tutti gli attori del cast che hanno regalato a “Padiglione 22” delle interpretazioni magnifiche. A cominciare da Giuseppe Antignati, il protagonista maschile, attore prestato dal teatro, che a tratti giganteggia nel film: sono certo che sarà una notevole sorpresa per gli spettatori. Ma tutti quanti hanno fatto veramente bene, oltre ogni mia aspettativa. Come Arturo Paglia, che seppur alle prese con un personaggio difficilissimo è riuscito a regalare a Marco una verità ed una profondità che forse non ero riuscito nemmeno a dare al personaggio; e poi tutti gli altri, Corinna Lo Castro, Gaetano Amato, Valentina Gristina, veramente bravi. Per quanto riguarda Regina, averla incontrata nel cammino di questo film è stata la mia fortuna. E’ stata capace di fare di Laura una sorta di guerriero in lotta con le sue paure e i suoi fantasmi. Con dei momenti di recitazione che mi sono rimasti impressi, molto distante e differente dai personaggi che aveva fino ad adesso interpretato. Infine parlare di Elio come di una “nuova leva” mi sembra riduttivo: é giustamente considerato oramai un attore completo e con enormi potenzialità. Spesso parlandone con altri mi capita di paragonarlo, anche se penso che i paragoni non gli piacciano, a Marcello Mastroianni, per l’apparente semplicità con cui riesce a esprimere una potenza enorme. Mi piacerebbe molto poter lavorare ancora insieme e spero capiti l’occasione.

Come scelta d’esordio sembri esserti orientato verso il thriller paranormale: in un momento in cui il cinema italiano sembra riscoprire le leggi salde e funzionali del “genere”, pensi sia un vantaggio o uno svantaggio questa - probabile - evoluzione?

Fare un film di genere, significa prima di tutto conoscerne le regole, aver capito ” come funziona”. E dopo anni di esordienti e non prestati al cinema che in realtà erano scrittori, cantanti, veline e saltimbanchi, mi sembra un bene avere dei film realizzati da registi, che almeno in teoria dovrebbero conoscere le regole del gioco. Per quanto mi riguarda la scelta del thriller è stata dettata sia dalla passione per il genere, sia per la consapevolezza di non voler fare un film in cui a meno trent’anni ammorbavo il prossimo con le mie idee sul mondo e sulla vita, che penso e spero non interessino nessuno. Per il cinema italiano spero possa essere un bene in generale, certo la strada per affrancarci dall’etichetta di esclusivi produttori di commedie, con tutto il rispetto per le commedie, è ancora lunga, ma forse in futuro riusciremo a vedere un horror italiano, piuttosto che un film di fantascienza, senza doverci sorbire un qualunque e, spesso mediocre, alternativo di Taiwan.

Quali sono state le influenze letterarie o cinematografiche durante tutto il percorso di realizzazione del film? A quali opere ti sei ispirato?

Padiglione 22 è infarcito di citazioni, che lascio agli spettatori che vedranno il film. Più che influenze, ho dei film che nella mia vita sono diventati delle vere e proprie ossessioni, sia a livello tecnico, sia per quanto riguarda l’immaginario. E volente o nolente alla fine sono finiti dentro il film. Mi riferisco ad Alien, o a Shining con tutto il rispetto per i maestri che li hanno fatti. Anche se non c’entrano molto mentre scrivevo la sceneggiatura guardavo e riguardavo in una sorta di loop Blade Runner e Apocalypse now. Ma la vera fonte di ispirazione, tanto che alla fine sono nel film, sono state le foto di Gianni Berengo Gardin. Probabilmente uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi, che alla fine degli anni 70, aveva fotografato i degenti dei manicomi italiani. Conoscevo le foto e ad esse mi sono ispirato e poi l’autore è stato così gentile da concederci il permesso di utilizzarle nel film.

Padiglione 22 è prodotto da Arturo Paglia ed Isabella Cocuzza per la Paco Cinematografica, una casa indipendente che sta cercando di emergere. Come vedi la situazione del cinema italiano fuori dagli schemi, lontano cioè dalle logiche del sistema attuale? Quale pensi sia il futuro di questo tipo di progetti?

Probabilmente, non sono la persona più adatta a rispondere ad una domanda del genere. Padiglione 22 è un finanziamento del Ministero, quindi quanto di più interno al sistema si possa immaginare. Ma viste le sue non facili vicissitudini produttive, il finanziamento è stato prima bloccato poi decurtato del 50%, quello che, secondo me, ha fatto la differenza e l’amore e l’attenzione che Arturo e Isabella e tutta la Paco hanno messo nella cura del film. Del resto sono loro stessi a dire che sono produttori per passione, nel tentativo di fare dei bei film e non perché qualcuno glielo abbia ordinato o imposto. Tempo fa, qualcuno mi ha chiesto come mi sono trovato con i produttori, beh penso che le parole che meglio di altre rendano il concetto siano: protetto e coccolato. Sono certo che senza di loro Padiglione 22 non sarebbe stato un film diverso, ma semplicemente non sarebbe stato.

Come giudichi il recente taglio di bilancio decretato dal governo nei confronti del F.U.S., e secondo te quali provvedimenti andrebbero adottati per migliorare la situazione dell’odierna industria cinematografica?

Trovo che un paese in cui la cultura tutta, non solo il cinema, viene trattata come è successo in Italia negli ultimi anni sia un paese barbaro e sull’orlo del collasso, morale e sociale.

Cosa pensi che manchi al cinema italiano per tornare ad essere pienamente un’ “industria” capace di riportare il pubblico in sala?

Non so se il cinema italiano sia mai stato un’industria nel senso americano del termine. Penso di no, e questa è stata la nostra forza nel passato. E forse il nostro problema maggiore oggi. Trovo inoltre sbagliato inseguire modelli di paesi tanto diversi da noi, sia culturalmente sia come potere di mercato. Quello che mi auguro e che sono certo farebbe la differenza è una maggiore attenzione nei confronti del prodotto filmico italiano da parte di chi lo realizza produttivamente e autorialmente. L’unica strada percorribile per riportare il pubblico in sala è fare dei buoni film qualunque cosa significhi e in qualunque modo si faccia. Certo è che se poi gli esercenti, che sono imprenditori e quindi le loro scelte di programmazione insindacabili, ad un bel film italiano preferiscono una qualunque porcheria di oltre oceano, allora forse non c’è soluzione...

Stai già preparando un altro film? Puoi parlarci del tuo nuovo progetto?

Ho iniziato a scrivere una nuova sceneggiatura. Si tratta di un progetto molto ambizioso, forse troppo: un film di guerra ambientato durante un conflitto non meglio identificato nel quale il protagonista si scontra con la sua perdita dell’innocenza e la scoperta dell’orrore dell’uomo. In un epoca in cui giornalmente rimaniamo più o meno inerti di fronte alle notizie giornaliere di morte e violenza, mi sembra che una storia del genere vada raccontata. Anche se non è mai accaduta. O se l’hai già sentita. Perché quando non esiste più nessuna frontiera, nessuno scopo perdi il controllo, l’equilibrio. E cadi. Nel caos. Ma la storia è ancora a livello embrionale, sento ancora di non essermi liberato del tutto di Padiglione 22, e forse solo quando camminerà con le sue gambe allora potrò rivolgere l’attenzione ad altro.


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