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INTERVISTA A SERGIO NAITZA

Pubblicato il 5 marzo 2007 da Edoardo Zaccagnini


INTERVISTA A SERGIO NAITZA

Nella prima intervista di questo speciale dedicato al cinema sardo, il regista Giovanni Columbu ci ha parlato del progetto realizzato dal quotidiano L’unione sarda, di far uscire (in vhs) una collana di venticinque film sardi. Abbiamo così contattato la persona che ha curato l’edizione e gli abbiamo chiesto di fornirci una bussola per orientarci in questa produzione di film, lunga quasi un secolo. Il giornalista, oltre a mostrarci una profonda disponibilità e una cortesia che ci è parsa sincera, ci ha fornito una consulenza preziosa ed articolata che riportiamo qui sotto. Siamo partiti da lontano, per arrivare, a passi, fino all’ulitma generazione…

S.N: L’immagine del passato del cinema sardo è quella di un mondo chiuso e marginale: un microcosmo dove le persone sono torbide e in cui pesano le regole familiari. L’ambientazione è rurale, di campagna, con pastori, pecore e montagne. E’ una sorta di luogo di frontiera che fa precipitare lo spettatore in una specie di cuore di tenebra, impervio e affascinante, che sempre conferisce il senso di una cultura forte. E’ un mondo dove i conflitti sociali e personali nascondono solitudine e dolore. Il cinema sardo, dai suoi albori in poi, produce tutte le caratteristiche appartenenti ai codici genetici del western e del melodramma. Per orientarci in questo viaggio, possiamo incanalarlo in due binari: da una parte si è sviluppato un filone che possiamo definire deleddiano e dall’altra uno che chiamiamo banditesco. Il melodramma lo ritroviamo nel filone deleddiano, il western in quello banditesco. Le novelle della scrittrice sarda, Grazia Deledda, sono straordinarie: molto ricche di incastri narrativi al punto che sembrano delle sceneggiature già pronte. Nel filone western, invece (sequestri, banditi e vendette), c’è una netta opposizione tra il bene e il male, con un’idea della giustizia che per trionfare deve passare attraverso una resa dei conti violenta e dolorosa. Credo che con questa base e queste caratteristiche, il cinema sardo dell’immediato secondo dopoguerra, perse una grande occasione: si poteva pensare di costruire anche in Sardegna un cinema meridionalista, sull’esempio di quello che Visconti aveva fatto per la Sicilia. Invece ci si è fermati allo stereotipo dei pastori e delle faide. Nonostante ciò ci sono due grandi eccezioni: Banditi a Orgosolo e Padre Padrone. Il primo col suo rigore e col suo rispetto per un ambiente culturale, il secondo per la sua capacità di adoperare lo straniamento brechtiano in funzione di una storia che parte dalla Sardegna per raccontare un archetipo di violenza e di sopraffazione. Quel film fece molto arrabbiare i sardi, preda del loro vittimismo e della loro permalosità. Ma a parte queste due perle il cinema sardo degli anni cinquanta e sessanta rimane molto legato a questo doppio binario

Persino Monicelli finisce in questo filone…

S.N: Con Proibito, film del ’54, Monicelli riesce a filtrare la traccia deleddiana nel western, fissando le rocce del paesaggio sardo su un technicolor di inconfondibile tradizione. Lo fa sfruttando il tema del banditismo che proprio allora, in Sardegna, inaugura la sua stagione calda. Saranno molti, in quel periodo i film sui banditi, incoraggiati dalle prime pagine dei giornali, sempre piene di sequestri e latitanze. Ne verrà influenzata l’opera del regista Piero Livi, di cui, tra i tanti, mi piace ricordare Pelle di bandito, e addirittura Carlo Lizzani che scenderà a girare un film in barbagia, con un allora sconosciuto Terence Hill, e a subire il fascino della cosidetta Balentìa (che è una specie di prova di forza). Il film di Lizzani si intitola Barbagia- La società del malessere ed è del 1969 ma già da prima il cinema del ‘continente’ diventa quasi un inviato speciale, col suo proposito di impegno politico e civile che però, come detto, non sfocerà in nessun capolavoro, come in Sicilia coi film sulla mafia. Due importanti film sul banditismo sono I protagonsti di Marcello Fondato (1968), e Sequestro di persona di Gianfranco Mingozzi (1969). Va precisato, tuttavia, che il filone banditesco è presente già dagli anni ’20.

Anche la traccia deleddiana rimane quasi una costante…

S.N: Certo. Ricordiamo lo sceneggiato Canne al vento di Mario Landi (1958) e quello di Giuseppe Fina (1973). Entrambi sono per la tv ma il secondo frantuma l’impostazione tipica degli sceneggiati. C’è Il segreto dell’uomo solitario (1989) ed è molto importante un film del ’93 di Maria Teresa Camoglio. Si intitola Con amore e Fabia. Ed utilizza la traccia deleddiana in chiave moderna.

Ad un certo punto irrompe la commedia all’italiana…

S.N: C’era già stata la caricatura macchiettistica e cabarettistica, sostanzialmente falsa e sopra le righe, di Mario Mattòli, il regista di Totò, che gira Terra sarda nel ’51. Film che, seppure sceneggiato da Maccari e Monicelli, dice poco e male della Sardegna. Il vero lavoro che immerge il grottesco e lo houmor nero nella tradizione cinematografica e nella cultura sarda è Una questione d’onore, di Luigi Zampa (1965), con un Tognazzi strepitoso. Questo film ha una storia particolare: venne sequestrato perché i sardi non si riconobbero in quel ritratto satirico. Questo perché il cinema funziona un po’ come uno specchio e vedersi riflessi in quella maniera significò non riconoscersi. I sardi, da sempre colonizzati, nutrono una certa diffidenza verso i continentali: quel film rappresentò quasi un’imposizione culturale.

Ma ad un certo punto c’è stato un punto di svolta, un salto di qualità…

S.N: Si, alla fine degli anni ’90 un drappello di registi sardi (non una scuola e nemmeno una nouvelle vague) sforna una serie di film. In quattro o cinque anni ne escono sette o otto ed è un risultato sorprendente per una sardegna da sempre luogo periferico, ancestrale, esotico e utilizzato spesso come quinta scenografica, (penso al film della Wertmuller, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto). Questi film sono Il figlio di Bakunin di Gianfranco Cabiddu, Un delitto impossibile di Elio Grimaldi, Arcipelaghi di Giovanni Columbu, Sos Larinbiancos di Piero Livi, Pesi leggeri di Enrico Pau, La destinazione di Piero Sanna, Ballo a tre passi di Salvatore Mereu. Sono titoli che raccontano una sardegna più vera e che suscitano una reazione molto favorevole da parte della cultura sarda. Lo schermo non è più il nemico dentro il quale prende forma un’immagine distorta, ora c’è la possibilità di riconoscersi e di provare una sintonia comune, non ci si sente più vittime di un immaginario a senso unico. Questi registi prestano una grande attenzione antropologica alla cultura che hanno nel sangue, meglio di qualunque altro regista possono parlare della Sardegna, perché in grado di prescindere da un’immagine se non proprio cartolinesca, comunque confezionata. Non mi riferisco solo ai film che vengono ambientati nell’entroterra ma anche, per esempio, alla Cagliari di Pau, alla Sassari di Grimaldi o al finale del film di Cabiddu, il figlio di Bakunin. E’ importantissimo specificare che accanto ad un nuovo cinema sardo si sviluppa un altrettanto decisiva e valida letteratura sarda.

Cosa tiene legati questi film?

S.N: Sono film molto diversi tra loro. Cabiddu ha fatto un po’ da apripista, quando con Disamistade (seppur ancora legato alle leggi della faida e della vendetta), parla di un ragazzo che, tornato da fuori per obbedire alle leggi della famiglia, si ribella. Nel fim Il figlio di Bakunin c’è una commistione tra campagna e città. In Arcilapelaghi e La destinazione è evidente una forte impronta antropologica, in Ballo a tre passi ci sono un grande rispetto e la grande attenzione all’ambiente, fusi con una ricerca linguistica personale che si avvicina al cinema di Kusturica e di Fellini: famoso è l’omaggio ad Otto e mezzo nel finale di Ballo a tre passi. Tutti questi film hanno in comune una grande onestà ed una forte verosimiglianza.

Parlano tutti della Sardegna, perché?

S.N: Uso una risposta che adoperò una volta Mereu citando Tolstoj: ‘Parla del tuo paese, Sarai universale!’

Al di là della nouvelle vague, quale è la situazione?

S.N: Direi che molto si muove: c’è il nuovo film di Enrico Pau, Jimmy della Collina, tratto dal romanzo omonimo di Massimo Carlotto (per chiarire una volta ancora il rapporto tra nuovo cinema e nuova letteratura, anche se la lista sarebbe molto lunga), presentato a Locarno. Poi cè Mereu che sta finendo di Girare con la Lucky red ed Arcopinto.

Parliamo un attimo di Salvatore Mereu.

S.N: Credo che sia molto bravo e che abbia il cinema nel sangue. Di lui ricordo alcuni lavori precedenti al lungometraggio d’esordio: Ballo a tre passi. Soprattutto il suo saggio di regia alla scuola di cinema. Lo ritengo importantissimo per capire il recente rinnovamento del cinema sardo. Questo lavoro si intitola Miguel e se qualcuno vuole comprendere approfonditamente l’ultimo decennio del cinema sardo non può prescindere da questo film.

Parliamone…

S.N: E la Storia di uno spagnolo che va a cercare di vendere una radio all’interno della Sardegna. Tenta di convincere i pastori che in questio modo le mucche potranno essere munte molto meglio. In realtà tenta di imbrgolaiarli ma questi lo catturano e lo mettono in pentola. Dentro al film c’è tutta la storia della Sardegna, con l’abitante che si ribella all’invasore ma stavolta con l’uso dell’ironia. La cosa importante e simbolica è che nel finale, durante la fuga, cade la macchina da presa ed il pastore la raccoglie ed inizia a filmare. Questo gesto segna un passaggio di testimone, è una consegna materiale che lo straneiro fa al sardo. Le riprese forniscono immagini traballanti, mosse, domenicali ma fondamentali. Con questo film siamo di fronte ad un vero e proprio punto di svolta: il sardo si riappropria dello strumento cinema. Miguel è una pietra migliare del cinema sardo. Il film ce l’ha soltanto lui, Mereu, e non lo fa vedere a nessuno.

Di Ballo a tre passi cosa pensa?

S.N: Che Mereu sia riuscito a sintetizzare il rigore di De Seta e l’universalità dei fratelli Taviani. Non mancano omaggi né all’uno né all’altro film. Il taglio del labbro in Ballo a tre passi ha un fin troppo chiaro riferimento a Padre padrone.

Il silenzio. Il forte rapporto con l’esterno. L’uso della lingua. L’arcaismo. Gli attori non professionisti. La forte attenzione ad una cultura. Esiste un filo robusto che lega i film sardi degli ultimi anni. A cosa si può attribuire questa sorta di linguaggio comune? E’ una scelta stilistica legata a quello che registi non sardi (Taviani, De Seta) hanno stabilito essere una direzione obbligata del linguaggio cinematografico sardo? Oppure è semplicemente il modo migliore di raccontare un mondo?

S.N: Il fatto che ci sia questo linguaggio comune fatto di uso della lingua, di attenzione alla cultura è il segno di una comune matrice culturale in cui la natura non solo è partecipe ma ha anche un ruolo forte e primario. Però, come già accennavo prima, non si può parlare di Nouvelle vague perché ognuno dei registi citati ha una storia diversa, che in molti casi ha coinciso con l’emigrazione: Cabiddu si è laureato in Etnomusicologia a Bologna è poi è andato a Roma a far cinema. Mereu ha fatto il dams a Bologna e poi il centro sperimentale a Roma. Livi è un autodidatta che è partito dal superotto. Pau ha studiato architettura ed ha una formazione di tipo teatrale. Columbu ha fatto il regista alla Rai per venticinque anni facendo cose sperimentali. Piero sanna è un carabiniere che si è innamorato del cinema e che ha frequentato molto da vicino Ermanno Olmi; per anni ha filmato per l’arma dei Carabinieri. Grimaldi ha fatto, negli anni ottanta, la mitica scuola di Rossellini a Roma, poi è rimasto lì e lavora anche in tv. Tutti, tra l’altro, hanno debuttato tardissimo. Forse il più giovane a farlo è stato Mereu, credo intorno ai trentacinque anni. Sanna, addirittura a 58.
E’ chiaro che il film di De Seta abbia sempre rappresentato un faro, una bussola ma credo che nessuno abbia mai scopiazzato. Banditi a Orgosolo era un film di alto valore antropologico e forse il film che più gli si avvicina è quello di tutti è quello di Columbu Arcipelaghi.

Sfatiamo però il luogo comune, la convinzione che Banditi a Orgosolo, sia un film in dialetto…

S.N: De Seta aveva in origine pensato di girarlo in dialetto sardo ma poi si era reso conto che l’operazione diventava troppo ostica e difficile. Questa fu l’unica concessione che si diede ed è anche l’unica cosa di cui si rammarica. Il doppiaggio, tuttavia, non toglie nulla alla forza espressiva del film e l’insegnamento di De Seta con Banditi a Orgosolo resta fondamentale. Sulla sua scelta può darsi che abbia pesato la paura che il cinema dell’epoca non fosse ancora maturo per un film in lingua, vista l’esperienza negativa (in termini di vendibilità) del film di Visconti La terra trema: il film fu un fiasco colossale al botteghino, nessuno capì un tubo di quel dialetto siciliano usato integralmente dai personaggi.

Dialetto che invece è molto presente nel cinema contemporaneo:

S.N: Singolare è il caso di Columbu: egli non adotta un solo dialetto, ma ognuno dei personaggi (attori non professionisti) parla col dialetto della zona da cui proviene. In Sardegna c’è un dialetto diverso da comune a comune, addirittura ci sono paesi in cui una parte parla un dialetto ed una ne parla un altro. Columbu lo ha considerato, a ragione, un patrimonio e lo ha sfruttato.

Accanto agli esempi di Grimaldi e Pau, in cui si parla di una Sardegna che assomiglia molto al resto d’Italia, (periferie, disagio giovanile, rabbia, certa incomunicabilità) in altri esempi di cinema sardo contemporaneo sembra predominare un conto aperto con il passato, quasi come se questo fosse necessario per poter affrontare, in futuro, gli altri problemi: diciamo quelli diffusamente contemporanei. Appare spesso una Sardegna secolare ed immobile. Cosa pensa di questa lettura critica?

S.N: Non sarei d’accordo se fossimo ancora fermi all’immaginario a senso unico che sulla Sardegna si era costruito fino agli anni sessanta e settanta. Perché allora si considerava l’Isola in una sola maniera: truculenta e artificiosa, quando, invece, già negli anni cinquanta, in Sardegna, c’erano il telefono, il telegrafo e la radio, mentre in altre parti d’Italia non sapevano neanche cosa fossero. Il film dei Taviani, per esempio, convinse gli stupidi che la Sardegna fosse tutta così. Oggi ci sono, per fortuna autori come Pau, Grimaldi e Pitzianti, che adesso inizierà le riprese del suo primo lungometraggio di finzione, i quali analizzano alcuni aspetti e problematiche della realtà sarda che sono molto vicine a quelle del resto del Paese. (Enrico Pitzianti ha svolto finora la professione di documentarista. Il suo ultimo lavoro si intitola Piccola pesca e parla dei pescatori della zona di capo Teulada alle prese con l’inquinamento del mare creato dagli ordigni bellici sparati dagli impianti militari costruiti nella zona, ndr). Eppure, non si può negare che in Sardegna esistano ancora sequestri e vendette personali e che è forte l’attenzione a questi fatti di cronaca. In questo senso il film di Sanna non è fuori dal mondo come non lo è il film di Columbu. E’ vero che una parte della Sardegna non riesce ancora a risolvere i conti con un passato fatto di leggi antiche, ma è altrettanto vero che il cinema sardo sa raccontarci il fallimento dell’industria petrolchimica sull’Isola, la perdita di identità del pastore, la sua incapacità ed impossibilità di diventare operaio, la violenza che nasce da questa conflittualità. Il cinema è un strumento rapdomantico, che mostra le cose prima che accadono, oppure le documenta mentre accadono, oppure ancora le certifica con la sua firma.

In parecchi film c’è la figura dello straniero, dello sguardo esterno che stride col contesto ed in qualche modo è spettatore della vicenda, insieme agli altri della sala. Nel film di Mereu c’è la ragazza francese che arriva da un aeroplano, per non parlare del carabiniere di La destinazione. E ricordo la figura di Nanni Moretti in Padre Padrone, che provava a fornire una possibilità di apertura ad una mente inesplosa come quella di Gavino Ledda. Con le dovute differenze tra film e film, come spiega questa coincidenza?

S.N: La Sardegna ha un passato di colonizzazione. Qui sono venuti tutti e tutti hanno lasciato un segno. C’ è stata una forte modificazione della cultura nuragica che era radicatissima ed autoctona, essendosi sviluppata esclusivamente qui. La presenza dello straniero serve a rimarcare la specificità della cultura sarda. E’ probabile che in modo simbolico, velato, trasversale e nascosto, la presenza dello straniero in molti dei film di cui parliamo, serva a marcare l’aderenza all’esperienza culturale vissuta dai sardi. Ti ripeto di nuovo la metafora di Miguel, con lo spagnolo che arriva in veste bianca, con questa macchina che gira per il Supramonte: quella è proprio l’immagine del conquistadores. Ora mi viene in mente l’immagine dello spagnolo di Ossessione che va a rompere l’equilibrio familiare nel film di Visconti, ma non prenderla troppo alla lettera, concedimi un piccolo momento di superinterpretazione. Tornando alla Sardegna credo che sia endemico il rapporto tra il guardare e l’essere guardati.

Ci hanno colpito molto le figure femminili. Figlie e madri, giovani e vecchie. Ma sono sempre accomunate da una grande sopportazione di dolore. Eppure sono molto forti…

S.N: E’ innegabile che in Sardegna sopravviva lo spirito della cultura matriarcale. La donna ha governato e continua a governare nel nucleo familiare ed ha un ruolo centrale nella cultura sarda. Fondamentale è il rapporto madre e famiglia, soprattutto quello tra madre e figlio.

Nell’intervista che abbiamo fatto al regista Giovanni Columbu, egli ci ha spiegato che questi film sono andati molto bene in Sardegna, perché oltre alla distribuzione in sala, il quotidiano ‘L’unione sarda’, ha fatto uscire più di venti film sardi in vhs. Il successo è stato enorme. Anche Mereu ha spiegato, quando il film fu visto a venezia, che sperava andasse molto bene in Sardegna. Ora sappiamo che questi film sono andati ovunque bene, nel senso che ogni volta che è stata concessa la possibilità di vederli, il riscontro positivo è stato unanime, sia per la critica che per il pubblico. Per chi è questo cinema? Soprattutto per i sardi o per tutti?

S.N: Il film di Mereu vince a Venezia la settimana della critica. Vince il David di Donatello, poi gira per il mondo e vince numerosi premi per regia e sceneggiatura. Il film di Sanna vince una miriade di premi in piccoli festival e molto spesso si aggiudica quelli del pubblico. Va in America, nelle università, e trova una straordinaria accoglienza. Il secondo film di Pau viene recensito positivamente a Locarno, e così più o meno per tutti gli altri. Arcipalaghi ha vinto la rassegna estiva Bimbi Belli, creata da Nanni Moretti, ndr). Questo per dire che non siamo assolutamente di fronte ad un cinema per sardi. Anche perché non è stato semplice farli vedere agli abitanti dell’Isola: il film di Sanna non è praticamente uscito in Sardegna e quello di Pau, Pesi Leggeri, è uscito solo in un cinema d’essay. Con questo cinema la “periferia” riconquista un posto centrale perchè le storie hanno un valore universale. Il cinema italiano degli ultimi è molto meno romanocentrico e si sono accese varie cinematografie locali. Ma ricordiamo per la terza volta che prima del nuovo cinema sardo è nata una nuova letteratura sarda.

Nella nascita dei film sardi c’è solo uno spontaneismo culturale o le istituzioni hanno un ruolo attivo?

S.N: Dal punto di vista produttivo in Sardegna c’è il deserto totale. Da quattro mesi c’è una legge regionale sul cinema ma non ha ancora i criteri attuativi il che significa che passerà almeno un anno prima che si deciderà a chi dare alcuni fondi. Se sarà un aiuto io non lo so. Spero di si. Molto dipenderà dalle scelte che verranno fatte, perché si può anche avere un budget regionale ma è ancora più importante avere le persone giuste che sappiano puntare sui progetti vincenti. Per esempio sul film di Mereu c’è stata molta polemica in quanto ha ottenuto dei fondi speciali, io credo che li meritasse tutti perché Salvatore è un ottimo regista…

Io la ringrazio per la gentilezza e la disponibilità mostrate, per il suo contributo così ricco di aneddoti e informazioni interdisciplinari. La saluto augurandomi di risentirla presto.

Febbraio 2007

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