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Intervista a Umberto Lenzi

Pubblicato il 6 dicembre 2014 da Alessandro Izzi


Intervista a Umberto Lenzi

La cosa che più colpisce nella descrizione del mondo del Cinema che fa da sfondo a Il clan dei Miserabili è la nostalgia (giustamente mai troppo centrale) nei confronti di una sorta di età dell’oro della cultura italiana in cui le distanze tra Autori e Generi non erano così siderali e in cui fare film aveva prima di tutto la dignità di un lavoro, ma descrive anche un periodo di confusione politica e sociale, a cavallo tra la fine del fascismo e l’inizio della ricostruzione post bellica modulata su un modello culturale sempre più vicino agli USA. Quali sono i motivi alla base di questa scelta?

La serie dei miei romanzi con protagonista il detective Bruno Astolfi, non ha riferimenti con il cinema autoriale o di genere , ma intende elaborare attraverso eventi noir legati al il cinema, un excursus sulla storia italiana dallo scoppio delle guerra, nel 1940, alla ripresa del dopoguerra nel 1947. Cioè dai film dei telefoni bianchi alla nascita del neorealismo. Infatti Il clan dei Miserabili, ultimo romanzo della serie è ambientato nel 1947 durante le riprese del film I miserabili di Riccardo Freda, e verte su un episodio di cronaca nera tipico della Roma ancora presidiata dall’ esercito americano. Mi interessa la storia convulsa e tragica dell’Italia in guerra, con il cinema di Cinecittà che continua a rifletterla, fino al periodo della liberazione.

Il romanzo trova uno dei suoi maggiori motivi di lucida autoironia nell’accostamento tra un contesto sociale sempre più “affamato” di realtà (non solo cinema neorealista dal momento che ci sono comparsate anche di Moravia ed Elsa Morante) e una solida impalcatura di genere con le sue regole astratte e il suo bisogno di spettacolo. Come fosse una sorta di braccio di ferro tra il pedinamento zavattiniano e quello poliziesco, tra ambiente e stile. Trova, alla luce anche della sua esperienza di regista, che ci sia davvero contraddizione tra queste due realtà?

Il fatto che Bruno Astolfi, il protagonista, interagisca con personaggi reali, è un modo di ricostruire il clima dell’epoca nel modo più vero possibile. Mi è stato facile inserire De Sica, Nazzari, Clara Calamai, Doris Duranti, Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, tutti personaggi che ho conosciuto personalmente. Mi rende difficile approfondire il tema senza fare riferimento altri cinque romanzi della serie che credo lei non abbia letto: Delitti a Cinecittà (cinema dell’anno 1940), Terrore ad Harlem (1943), Morte al cinevillaggio (1944 a Salò-Venezia), Scalera di sangue (1945) e Spiaggia a mano armata (1946).
I miei libri gialli sono cinema su carta, ma pur sempre in un linguaggio autonomo, quello letterario. E mi sono rifatto non a Zavattini e i suoi pedinamenti, ma all’hard boiled americano di Chandler e Dashiell Hammett, creatori dei celebri detective della letteratura noir americana: Marlowe e Sam Spade. Inserendo un pizzico della ironia del Maigret di Simenon, uno degli autori che più apprezzo.

Uno degli omaggi più affascinanti (tra i tanti che animano le pagine del suo romanzo), ce n’è uno dedicato a Suso Cecchi D’Amico. A lei, somma sceneggiatrice del nostro cinema, è concesso risolvere una parte dell’enigma. Un modo per rimarcare la necessità di una solida sceneggiatura contro la tentazione dell’abbandono al solo piacere del gioco dei colpi di scena?

Suso Cecchi D ’Amico è stata una donna di acume incredibile e l’ho inserita non solo come omaggio alla sceneggiatrice, ma perché la mia scelta, nei precedenti romanzi, è stata quella di usare Toto’, Mario Soldati, Renato Guttuso e altri illustri personaggi del tempo come imput risolutore alle indagini di Astolfi.

E nel girare i suoi film come si è rapportato con sceneggiature scritte da terzi, alla luce della sua esperienza anche come sceneggiatore?

L’ esperienza di regista e sceneggiatore di quasi tutti i miei film, credo si rifletta abbastanza nello stile asciutto grintoso e essenziale dei libri. Come ho già detto, cinema su carta.

Il clan dei Miserabili colpisce anche per la sua fitta “tessitura sonora”. Il romanzo, infatti, è pieno di canzoni, di strofe musicali, di motivi fischiettati. Il bisogno di catturare l’atmosfera del tempo o c’è nelle pagine un continuo “tendere al” cinema?

Per definire il contesto di quegli anni, mi sono avvalso di canzoni d’epoca e di cantanti legati alla Radio degli anni ’30 e ’40. Non sono il solo ad aver usato nei romanzi questa tessitura sonora, anche il celebre scrittore americano Michael Connelly, fa uso frequente di canzoni jazz nei suoi libri imperniati sull’investigatore Harry Bosch.

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