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Invisibili

Pubblicato il 28 maggio 2003 da Alessandro Izzi


Invisibili

Punto di non ritorno del reality show, Invisibili nasce da un’idea che definire perversa è poco. Partendo da una premessa di facile didascalismo, falsamente pietistica e drasticamente moralista, lo show vorrebbe proporsi come una specie di bonario schiaffo simbolico dato in faccia a tutte quelle persone (e sono tante!) che, trovandosi sul cammino un homeless, un senza patria (per scelta o per necessità), volgono altrove lo sguardo cercando di dimenticare che quel volto anonimo infagottato in pochi panni beceri, nasconde l’anima di una persona con i suoi bisogni, i suoi sorrisi e le sue lacrime. Se queste persone, che hanno il solo problema di non avere un’occupazione, una casa o un ricovero, sono percepite da tutti noi come invisibili, pare dirci il programma con la sua impaginazione e il suo modo di porgere e raccontare, la colpa è tutta nostra, sta tutta nella nostra incapacità di fermarci per un momento ad ascoltare quello che queste persone potrebbero avere da dirci. Ma, ringranziando Dio, l’autore di questa luminosa trasmissione è un realista, ha capito bene che se l’indifferenza regna, nella nostra ridente penisola come nel resto del mondo, la colpa non è dei poveri spettatori da casa che in fin dei conti sono dei buoni diavoli e che, per di più, pagano pure un canone (per un’altra rete). La colpa deve essere ricercata piuttosto negli impegni, nelle occupazioni che affollano la nostra esistenza in maniera fin troppo frenetica e che ci impediscono di prestare troppa attenzione al mondo che ci circonda. Se, insomma, la nostra esistenza si consuma ormai tutta tra posto di lavoro (o di studio), palestra e casa, non si può imputare a noi la colpa di non riuscire a trovare il tempo per fermarci un minuto con questi poveri diavoli per farci raccontare la loro vita magari davanti ad una birra o ad un caffè. Profondamente immedesimato nei nostri bisogni quotidiani e nella nostra fretta immanente persa dietro a mille rivoli di falsa consapevolezza, egli ha deciso, allora, che la soluzione migliore era mandare una telecamera in giro a farlo per noi. Questa telecamera ha il nome e il volto di Marco Berry: una specie di segugio con un fiuto straordinario nel trovare tra i mille derelitti invisibili che popolano le nostre città proprio quelli più fotogenici e quelli le cui storie meglio si adattano a riempire una programmazione di seconda serata (la prima, per carità, lasicamola a Castagna e alla De Filippi). In uno studio molto trendy che già da solo, è uno schiaffo alla povertà e che nasconde, dietro asettiche pareti prive di orpelli, una falsa vocazione a uno stralunato, astratto realismo, con luci che si alzano e si abbassano e si colorano come quelle di Passaparola (solo più lentamente) il conduttore di questa trasmissione sembra essere totalmente libero di dare sfogo alla sua volontà predatoria nei confronti delle storie che possono fare quel po’ di audience che, in fondo, tutti cercano in un programma televisivo. Facendo appello sulla falsa coscienza di noi tutti Berry va in cerca di episodi edificanti, rincorre i barboni fin nei loro letti fatti di stralci di giornali e li ossessiona con mille domande tra cui la più atroce è: Cosa vedi nel tuo futuro? Lo spettatore, rinfrancato dal vedere un cuore anche negli homeless che gli fanno tanto paura quando, di notte, tornando a casa per vicoli oscuri, non riesce a trovare le chiavi di casa nel fondo delle proprie tasche, può, quindi, lavarsi la coscienza dalle macchie del suo incoffesato (e molto bossiano) desiderio di pulizia etnica e, nella consapevolezza delle storie apprese nella trasmissione, potrà, la prossima volta che ne incontra uno, porgergli un sorriso bonario di compartecipazione e solidarietà (magari accompagnato da un decino). Tutto quello che una trasmissione come questa aspira ad insegnarci è aggiungere un poverino alla parola barbone facendoci scambiare questo pietismo pauperista per autentica compassione (nel senso letterale del termine di patire con). E la cosa che da di più sui nervi è che in molti credono (Costanzo è tra questi) che già questo da solo sia un gran risultato! Il problema più grande resta, comunque, che quest’etica da quattro soldi non solo si trincera dietro le nobili aspirazioni di un pensiero all’apparenza buono, ma ricorre, per trovare espressione, alla categoria estetica di un pedinamento televisivo che da Zavattini in poi suona falsamente realistico. Ci si dimentica troppo facilmente, però che, come Verga (e lo stesso Zavattini del resto) aveva intuito, perché ci sia realismo occorre la scomparsa dello sguardo giudicante, occorre la morte dell’autore e (utopicamente) la morte della stessa opera che tenta di veicolarlo. In Invisibili, al contrario, assistiamo alla magnificazione dell’autore, all’esaltazione di quel Berry che tante cose ci dice di aver capito e all’esaltazione di quella televisione che dice di voler distruggere i nostri pregiudizi e si limita, nel migliore dei casi, a sostituirli con altri di segno diverso. Restituendo le storie dei clochard attraverso clip con tanto di attori, mentre musiche scelte all’uopo commentano i momenti drammatici e sottolienano quelli simpatici, il programma rivela un sostanziale andamento modaiolo e fa lo stesso effetto che si prova nel vedere un capo di vestiario griffato, firmatissimo e costosissimo che cerca di essere in tutto e per tutto uguale ai vestiti di ragazzi di strada. Ne viene fuori un abominio estetico deprecabile sotto tutti i punti di vista che ha il solo pregio di mostrarci la televisione per quello che è: una bestia che, esaurite le manie di protagonismo di grandi fratellari e futuri famosi in cerca di quindici minuti di celebrità, si rivolge, alla fine, a quei miseri reietti che, non conoscendo il suo gioco perverso per il semplice fatto di non vedere TV (non ce l’hanno), sono per questo incapaci a difendersi dalle sue bieche mire.

(Invisibili); condotto da Marco Berry; regia: Fabio Calvi; autori: Giovanni Filippetto, Sergio Bertolini; filmati realizzati da: Milanoroma srl; editor filmati: Vincenzo Gioitta; fotografia: Daniele Savi; direttore di produzione: Stefano Bartolini; Programma realizzato dalla Videotime Spa

[maggio 2003]


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