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JAVIER RIOYO & JOSE’ LOUIS LOPEZ-LINARES

Pubblicato il 6 giugno 2004 da Mazzino Montinari


JAVIER RIOYO & JOSE' LOUIS LOPEZ-LINARES

Insieme a Thom Andersen e Travis Wilkerson, protagonisti della “Mostra del Nuovo Cinema” sono stati Javier Rioyo e José Luis Lopez-Linares, presenti a Pesaro con tre documentari: Asaltar los Cielos (1996), A proposito de Buñuel (2000) e Extranjeros de sì mismos (2001).
I due registi spagnoli (Linares è anche direttore della fotografia) hanno diretto e prodotto con la loro casa “Cero en conducta”, tre film con un approccio storico senza con ciò privarsi di una narrazione tesa a drammatizzare le vicende. Un modo di fare documentari che rimette in discussione la vetusta divisione tra generi cinematografici e che peraltro percorre oramai un sentiero già battuto da altri autori.
Alla base della loro poetica v’è indubbiamente un chiaro impegno politico. I temi affrontati sono quelli della guerra civile spagnola e dell’assassinio di Leon Trotsky, insieme all’originale biografia di Buñuel. Oltre alle questioni più strettamente politiche, però, va rimarcato un aspetto che non è affatto secondario nello svolgimento dei tre film e che si salda con il primo: la costante messa in discussione della distinzione tra realtà e finzione, tra verità e menzogna. Non a caso Rioyo, ospite a Pesaro, nel saggio scritto per il catalogo ha intitolato il suo breve quanto significativo scritto, La bugia delle verità a rimarcare l’aspetto “finzionale” di ogni documentario e di qui la rimessa in questione della definizione dello stesso genere documentario. Rioyo e Linares procedono alternando interviste e materiali di repertorio per portare avanti e poi per ribaltare le tesi che a fatica sembrano emergere. Mettono in scena il conflitto delle opinioni, seguendo l’antica tradizione greca risalente a Tucidide e alla Guerra del Peloponneso. Ogni personaggio si fa portatore della propria idea e come tale la difende contro quella dell’avversario.
Guardando i film di Rioyo e Linares viene da pensare ai sofisti e al loro modo di argomentare, di dissuadere e di persuadere. In tal senso, ad esempio, l’assassino di Trotsky, Ramon Mercader, viene dipinto di volta in volta come un lucido e implacabile killer e come la vittima di un destino superiore, come l’individuo padrone delle sue azioni e come una marionetta fedele alla causa stalinista che obbedisce a degli ordini.
Il metodo applicato dai due registi è interessante e impegnativo, perché di una realtà apparentemente scontata non si riesce a dare un giudizio univoco, anche quando si tratta della guerra civile spagnola. Lo spettatore è chiamato in causa, è costretto a pensare da sé. E in questo risalire la corrente cercando di giudicare la storia, emerge il senso autentico del politico, che non corrisponde alla tesi del documentario, ma alla scelta delle tesi, al dover decidere nella pluralità delle opinioni.
Forse, se si dovesse fare un appunto critico, talvolta l’eccedere nel gioco degli specchi produce l’effetto indesiderato di dare poco respiro allo spettatore che si trova perso nel caos delle opinioni. Ma, d’altra parte, non viviamo tutti i giorni nel mondo della doxa? Così, si arriva a un esito forse inaspettato: l’unica realtà non menzognera di un documentario sta nel come e non nel cosa si mostra.

[giugno 2004]


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