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Venezia 77 - Khorshid

Pubblicato il 8 settembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Venezia 77 - Khorshid

Al di là dei lacci distorti che scorrono fra gli individui, un altro refrain di questo Festival veneziano sembra essere legato alla tematica dell’abbandono. Quasi nessuno dei giovani protagonisti selezionati per il Concorso pare avere una famiglia, ognuno corre per la sua strada senza voltarsi indietro.

Khorshid ci presenta una nuova serie di orfani, questa volta trasposti in terra persiana. Fin dalla prima inquadratura, il regista iraniano Majid Majidi ci scaraventa prepotentemente all’interno di una Teheran cavernosa da cui sembra impossibile risalire in superficie. È all’interno di un simile labirinto che le vite del piccolo Ali (Rouhollah Zamani) e dei suoi compagni scorrono ad un ritmo vertiginoso, faticosamente barcamenandosi fra il lavoro e alcuni piccoli atti criminali. Non tutto ciò che avviene nel sottosuolo resta nel sottosuolo: la città è un vorticoso dipanarsi di fitte tele costruite nell’ombra per mano di adulti, ma percorse alla luce del sole dai loro figli. Suonerebbe inutile e ridondante ribadire che Ali, l’infanzia, non sa nemmeno cosa sia: e infatti il film sembra dare per scontato proprio quel concetto di normalità con cui ognuno, volente o nolente, si ritrova a fare i conti.
Il ragazzino fa parte di una generazione nata e cresciuta nella solitudine, nomade per necessità, in continua fuga da circostanze al di fuori di ogni controllo. Con la madre internata e il padre assente (morto? Sarà vero? O semplicemente svanito insieme agli altri genitori?), Ali si difende come può e, pur nei suburbi in cui si trova rinchiuso, riesce a ritagliarsi un microscopico spazio per le sue fantasie puerili – fantasie e illusioni che sarebbe quasi meglio non coltivare affatto, perché destinate ad essere deluse. Quando gli viene affidato l’incarico di trovare un tesoro scavando un tunnel al di sotto di un cimitero, il bambino crede di possedere la chiave per accedere al Graal. Ma bisogna partire da un luogo sicuro: ad esempio, dalla Scuola del Sole, un’associazione benefica costruita per chi, come lui, trascorre le sue giornate scappando di strada in strada. Riunita la sua banda, Ali si iscrive: ad attenderlo troverà, nell’ordine, preside e vicepreside – classificabili, rispettivamente, come un diffidente burocrate (che li sbatte fuori) e un taciturno insegnante (che li ripone sotto l’ala protettiva della fondazione).

A questo punto, la pellicola si divide in zone dai colori opposti: l’oscurità rappresentata della missione clandestina inizia così ad alternarsi alle tinte più luminose del tempo trascorso fra giochi e lezioni. I protagonisti vivono su due piani che paiono scorrere parallelamente l’uno all’altro e che, nonostante rischino per l’intera narrazione di incrociarsi, sembrano costretti a rimanere divisi. Da una parte, la galleria scavata dai giovanissimi minatori, dall’altra la parvenza di una quotidianità in linea con i loro dieci o quattordici anni. Majidi è particolarmente abile nel trasformare l’Isola del Tesoro in un racconto dell’orrore: i toni e i modi in cui la cinepresa ci espone lo squallore del narcotraffico e dello sfruttamento minorile variano costantemente, in un gioco di prospettive che s’intersecano senza posa. Ci si chiede se Ali e i suoi compagni d’avventura siano consapevoli dei propri atti o se invece non si limitino a costruire un confine difensivo fra loro stessi e il resto del mondo: la medesima barriera la ritroveremo nel cancello della scuola, sorta di limes in cui chiedere asilo. Impressionante è la scena in cui il portone, chiuso in seguito al sequestro dell’edificio, viene scavalcato da migliaia di ragazzini e occupato dai professori.

Eppure su ogni cosa, perfino sul sole, grava il peso dell’incarico affidato ad Ali – ormai trasformatosi in una sorta di puerile ossessione. A mano a mano che gli eventi precipitano, egli scava sempre più a fondo, battendo disperatamente il piccone contro le pareti e perdendosi nelle ombre sotterranee emanate dalla sua Teheran. Le gallerie in cui il bambino striscia non sono che protesi dell’universo in superficie, la Scuola del Sole non è che il retroscena di un mondo ancora profondamente ferito e – nonostante i muri abbattuti – inevitabilmente diviso. I dissidi fra popolazione afghana e iraniana, la mancanza di un reale supporto da parte dello stato, l’infinito vagare per vicoli ciechi: in Khorshid, luce e oscurità sono, purtroppo, figli della stessa stella.


CAST & CREDITS

(Khorshid); Regia: Majid Majidi; sceneggiatura: Majid Majidi, Nima Javidi; fotografia: Houman Behmanesh; montaggio: Hassan Hassandoust; interpreti: Ali Nasirian (Hashem), Javad Ezzati (vicepreside della scuola), Tannaz Tabatabaie (madre di Ali), Rouhollah Zamani (Ali), Seyed Mohammad Mehdi Mousavi Fard (Mamad), Shamila Shirzad (Zahra), Abolfazl Shirzad (Abolfazl), Mani Ghafouri (Reza), Safar Mohammadi (bidello della scuola), Ali Ghabesh (preside della scuola); produzione: Majidi Film Production (Majid Majidi, Amir Banan); origine: Iran 2019; durata: 99’


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