X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



L’albero dei frutti selvatici

Pubblicato il 4 ottobre 2018 da Valentina Holtkamp
VOTO:


L'albero dei frutti selvatici

L’albero dei frutti selvatici (2018), rappresenta forse il vertice della filmografia e la summa estetica del cinema di Nuri Bilge Ceylan.
Un cinema dilatato, 188 minuti immersi nei paesaggi e nei colori della sua terra e nelle parole dei suoi personaggi, un cinema che guarda al teatro e ai grandi classici della letteratura. In una libreria vediamo i ritratti di Garcia Marquez, Franz Kafka, Virginia Woolf e Albert Camus, ma sono i grandi autori russi, come Čechov e Dostoevskj, a guidare lo sguardo partecipe ma privo di giudizi di Ceylan.
Non a caso il protagonista del film è il giovane Sinan (Aydin Doğu Demirkol), appassionato di letteratura, che ha il sogno di diventare scrittore; il personaggio è ispirato alla figura di Akin Aksu, che il regista incontra per caso in un viaggio in Turchia e che lo affascina a tal punto da voler realizzare un film attorno alla sua persona, facendolo collaborare alla stesura della sceneggiatura.
Di ritorno nel suo villaggio natale in Anatolia, Sinan, appena laureato in Scienze della Formazione e una possibile carriera da maestro davanti a sé, è seriamente intenzionato a trovare i soldi per pubblicare il suo romanzo, Il pero selvatico, cui sta lavorando da una vita. Ma il libro è una raccolta di divagazioni filosofiche personali che sembrano non interessare a nessuno. In più c’è una situazione famigliare complicata, aggravata dai debiti di gioco del padre, vecchio maestro di scuola con il vizio delle scommesse sulle corse dei cavalli, e lo spettro di un futuro senza prospettive.
Le tare dei padri sembrano inseguire i figli, secondo una delle grandi lezioni della tragedia classica, come ci dice il regista: “che lo vogliamo o meno, non possiamo fare a meno di ereditare alcune caratteristiche dei nostri padri, come un certo numero delle loro debolezze, delle loro abitudini, dei loro tic e di una moltitudine di altre tratti”; e proprio il confronto tra generazioni rappresenta il tema centrale del film.
Lo spirito rivoluzionario (ideologico) del giovane Sinan vuole modificare il presente attraverso la riflessione e la contestazione della cultura che l’ha preceduto. Ed è con il dibattito che tenta di scardinare le abitudini e gli insegnamenti tramandati dalla comunità, percorrendo un itinerario filosofico che, partendo dalla terra Turca incorniciata di cieli color pastello, si dispiega in dialoghi che esplorano la letteratura, la religione, il matrimonio, la famiglia, e che Ceylan inquadra in lunghi piani sequenza che ne rispettano l’autenticità e la durata reale.
Il tentativo di ribellarsi al destino prende forma soprattutto nel disprezzo del protagonista verso il vizio del gioco e le abitudini del padre che si è piegato alla quotidianità, senza avere la forza di reagire con l’intelletto.
In fondo il padre è l’unico a leggere il romanzo del figlio ed è grazie ai soldi ricavati dalla vendita del cane del padre che Sinan può permettersi di pubblicare il libro, in un groviglio di sensi di colpa e sentimenti contrastanti. Il conflitto è segnato: da un lato la generazione dei padri che ha conosciuto l’impossibilità di cambiare la propria condizione attraverso gli ideali e i sogni, e che ha visto sbiadire giorno dopo giorno le stesse aspettative che ora illuminano lo spirito del giovane Sinan; dall’altro quella dei figli che non conosce ancora il ripetersi degli insuccessi e la stanchezza del corpo, e sembra prendersi troppo sul serio, incapace com’è di comprendere che le debolezze possono regalare la forza per ridere, nonostante i rovesci della vita. Il titolo originale del film, The Wild Pear Tree, che prende il nome dal romanzo di Sinan, ha un chiaro significato metaforico: il pero selvatico è un albero dalle forme contorte, che cresce in condizioni difficili, ha bisogno di poca acqua e per questo può sopravvivere in terreni aridi, anche se dà frutti dal sapore aspro. “Ho sempre pensato che quell’albero fosse come me, come te, come il nonno», dice Sinan al padre e si prepara ad accettare il medesimo destino.
Vuoi sapere una cosa? La realtà è una sola”, dice lo scrittore famoso e affermato al ragazzo, ma il cinema di Ceylan sembra affermare il contrario: non esistono i fatti, solo le interpretazioni, i personaggi sono legati da rapporti di amore e odio, ogni sentimento è contraddittorio, così come piena di contraddizioni è la Turchia.
Laddove tutto sembra bloccato e le radici sprofondano nella terra secca e arida di un Paese ancorato al suo passato, il sogno impossibile di trovare l’acqua nel pozzo della fattoria del nonno può diventare un’ossessione, ma al contempo è l’ultima speranza di avere un riscatto morale che dimostri che qualcosa può cambiare, che il padre e il figlio non avevano torto a credere negli ideali, che non si vive per sopravvivere, si vive per non abbandonare i sogni, sogni racchiusi in un cavallo di Troia che ci vuole proteggere e non tradire.


CAST & CREDITS

(The Wild Pear Tree); Regia: Nuri Bilge Ceylan; Sceneggiatura: Akin Aksu, Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan; fotografia: Gökhan Tiryaki; montaggio: Nuri Bilge Ceylan; suono: Andreas MÜcke Niesytka, Thomas Robert, Thomas Gauder; Scenografia: Meral Aktan; interpreti: Aydin Doğu Demirkol, Murat Cemcir, Bennu Yildirimlar, Hazar Ergüçlü, Serkan Keskin, Tamer Levent; produzione: Zeyno Films Production, Memento Films Production, Detail Film, RFF International, Sisters and Brothers Mitevski; origine: Turchia, Francia, Germania, Bulgaria, 2018; durata: 188’


Enregistrer au format PDF