X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



L’ultima canzone di Piero

Pubblicato il 19 luglio 2004 da Alessandro Izzi


L'ultima canzone di Piero

Se ne andato, dopo sessanta anni di coerente attività, Piero Piccioni, uno degli autori più eclettici e curiosi della musica per film italiana. Passato dal Neorealismo alla Commedia all’italiana, dal film d’autore al più corrivo degli spaghetti western, il compositore torinese ha dimostrato, nel corso di una carriera che l’ha portato a comporre centinaia di colonne sonore, una capacità mimetica ed un’abilità ad entrare, con le sue note, nel corpo del film davvero invidiabili. Neppure il caso Montesi, celebre scandalo noir-politico degno di un film che non aspettava altro che le sue musiche e che provocò le dimissioni dal partito del padre per via di sospetti su una sua partecipazione all’omicidio di Wilma Montesi, sembra sia stato in grado di fermare la sua attività torrenziale (anche se ha, in parte, segnato una breve battuta d’arresto nel suo lavoro sul principiare degli anni ’50). A guardarla oggi, con il senno di poi, l’attività cinematografica di Piccioni è simbolo potente di una professionalità intima e sentita che sembra non avere alcun corrispettivo tra le opere delle nuove leve di compositori di musica per film e la sua opera dimostra, ad ogni passo, di conoscere un invidiabile senso di “appartenenza” ad una concreta scuola di lavoro (che in un certo senso comprendeva anche Trovajoli e, su altri livelli, Morricone) di cui si è persa oggi quasi ogni traccia. Frutto di un solido artigianato, l’opera di Piccioni ha le caratteristiche di un vero e proprio lavoro di bottega nel senso rinascimentale del termine: è frutto, insomma, di un lavoro su una “maniera” e si risolve nell’applicazione delle regole codificate di una “scuola” che, proprio in virtù del formalismo che la sostanzia, lascia, comunque, aperta la strada a veri e propri lampi di genio. Ma, proprio laddove si evidenziano gli aspetti positivi dell’operato di Piccioni, lì riposano, comunque, anche tutti i limiti di un lavoro che ha avuto spesso il difetto di nutrirsi troppo dello spirito dei tempi che lo vedevano nascere. Il compositore torinese non ha mai preteso di essere un innovatore e la sua musica ha sempre cercato di accarezzare i film ammantandoli discretamente, ma cercando di scomparire nell’immagine. Non a caso fu chiamato da Carlo Ponti per musicare nuovamente Le mepris di Godard quasi a voler addolcire, anche con la musica e non solo con i tagli censori, le punte eccessivamente sperimentali della regia godardiana. Solido e discreto quando messo di fronte a film altrettanto solidi (tutte le ottime collaborazioni con Rosi culminanti in Salvatore Giuliano), squisitamente ironico e pungente nelle commedie (da un certo punto in poi legò la sua carriera al nome di Alberto Sordi per cui compose non poche marcette dal gusto quasi stravinkiano che paiono, oggi, molto datate), Piccioni mostra il suo lato migliore quando impronta le sue composizioni sulle logiche dell’amato jazz (come in La spiaggia di Lattuada, ma un po’ dovunque nelle composizioni degli anni ‘60). Qualche volta ha tentato la strada di soluzioni stranianti con derive bartokiane (è il caso di Il mafioso sempre di Lattuada) e ha dimostrato discrete capacità anche nel futuribile (e quindi più musicalmente difficile) La decima vittima del 1965 di Pietro Germi da un racconto di Sheckley a dimostrazione di vocazioni quasi enciclopediche. Nel piangere la sua scomparsa rimpiangiamo quindi prima di tutto la perdita di un nobile artigiano che ha incarnato in sé il senso di un’epoca e che ha saputo rendere palese tutto l’amore che può essere profuso nel semplice “fare cinema”.

[luglio 2004]


Enregistrer au format PDF