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L’ultimo Tango di Bernardo Bertolucci

Pubblicato il 13 maggio 2020 da Monia Manzo


L'ultimo Tango di Bernardo Bertolucci

Quando Last Tango in Paris ( Ultimo tango a Parigi ) venne presentato nell’ottobre del 1972 in anteprima mondiale a New York, lo shock fu immenso e la critica si divise subito tra sostenitori entusiasti e detrattori feroci. Tra le prime persone affascinate dall’opera di Bernardo Bertolucci ci fu Pauline Kael, che sul «The New Yorker» mise a confronto l’impatto del film alla rivoluzione musicale di Stravinsky nel 1913 con la Sacre du printemps.

La grande critica americana, in un articolo memorabile (vedi https://www.criterion.com/current/p...) ne colse immediatamente il potenziale sovversivo, stabilendo anche gli influssi di grandi autori del cinema come Jean Renoir, von Sternberg (“the controlled lighting”), Max Ophüls (“tracking camera”) o Marcel Carné. Elogiò la fotografia di Vittorio Storaro così attenta ad esaltare i colori caldi del film, e la traduzione dei sentimenti nella straordinaria musica coinvolgente di Gato Barbieri. Fu anche la prima a evidenziare il filo che univa Ultimo tango a Parigi a Roberto Rossellini e Luchino Visconti per la presenza di due importanti attori del neorealismo: Maria Michi (Roma città aperta [1945], Paisà [1946]) nella parte della suocera di Paul (Marlon Brando), e Massimo Girotti (Ossessione [1943], Senso [1954]) in quella di Marcel, l’amant double della moglie del protagonista, Rosa. L’intento di Bertolucci era anche quello di assassinare gli ingombranti totem cinematografici che avevano nutrito il suo primo cinema, dal pasoliniano La commare secca [1962] fino a Il conformista [1970], la sua resa dei conti con Godard e la Nouvelle Vague. Per Pauline Kael lo stacco rispetto alle opere precedenti era netto e riguardava non solo i contenuti ma soprattutto lo stile. Il sesso era un’arma di difesa che aveva la forza di stravolgere le esistenze e Ultimo tango a Parigi il film più erotico che lei avesse mai visto fino a quel momento.

Oltre ad essere un capolavoro del cinema internazionale, il film è un vero e proprio manifesto sulla “Liberazione” a più livelli che si intersecano e si compenetrano senza poterli poi distinguere del tutto, proprio perché sono dettati tutti dalla stessa motivazione: svincolarsi dal legame familiare, dal senso di colpa e dalla moralità. Ultimo tango a Parigi non è che un risuonare della voce di Bertolucci, in cui viene detto molto della sua vita attraverso l’incanto delle immagini e la genialità di una sceneggiatura pregna di concetti e idee contrastanti. Tutto inizia con la scena del protagonista l’americano Paul alla stazione e con un grido di dolore, che ricorda quello della tragedia greca, un dolore che spezza la vita per sempre, ma che al contempo la libera da qualche mostro opprimente, che gli ha sempre tolto il fiato, nel caso più specifico si tratta della moglie Rosa ora morta suicida.

L’incontro fatale di Paul è con Jeanne (Maria Schneider), un’esuberante diciannovenne, piena di ribellione e voglia di esprimersi: si incontrano in un appartamento da affittare in via “Jules Verne” ormai diventata nell’immaginario dei cinefili, sinonimo di erotismo e di esplorazione sconvolgente delle coscienze di esseri lontani ma vicinissimi, due anime che non si compenetrano mai veramente, tranne che nel momento in cui hanno il coraggio di toccare i limiti più estremi della loro esistenza. Paul rappresenta un po’ Marlon Brando attore divo, ormai nella sua fase calante, reduce dagli eccessi, e Marlon Brando è in parte Paul, in quella sua veste di uomo che vorrebbe tornare indietro nel tempo. E questo lo sa anche Jeanne, la quale intuisce immediatamente il gioco perverso di amore e morte che si sta per attuare nell’appartamento parigino. L’erotismo è l’unico vero legame tra i due protagonisti, e anche quando il desiderio di trasgredire l’ordine costituito da parte della ragazza sembra attenuarsi per dare spazio ai sentimenti, viene subito redarguita dall’amante, che le ricorda come per loro non esista altra condizione che l’essere due sconosciuti. Solo così possono veramente andare al di là del bene e del male, Paul deve distruggere l’idea della moglie/famiglia borghese che lo ha tradito inopinatamente con un vicino di casa vecchio (un fantastico Massimo Girotti), mentre Jeanne ha bisogno di sovvertire l’ordine patriarcale impostale da un padre militare violento e maschilista.

È chiaro di sentire qui la voce di Bertolucci, che deve aver trasferito in questi personaggi molto della sua vita intellettuale, più di quanto si possa immaginare, non c’era molto da censurare come poi ha dichiarato il pm che nel 1987 ha finalmente tolto la “condanna al rogo” al film decretata nel gennaio 1976 da un tribunale romano. Anche la celebre scena “incriminata”, quella del rapporto sessuale facilitato dall’uso del burro, in cui si dice che la Schneider possa realmente aver subito una molestia sessuale, non ci parla di sessualità ma di liberazione da tutto ciò che grava sulle anime dei personaggi. L’incontro fra corporeità e spirito, inteso nell’accezione più aristotelica, sembra prendere forma e inverarsi attraverso azioni filmiche racchiuse perlopiù tra quattro pareti, quasi a proteggere in modo uterino i due amanti al limite tra il trasgressivo e l’umanamente disperato. Vivono di riflesso uno dell’altro in un amplesso sadomasochistico in cui il desiderio di sopravvivere sfiora sempre quello di poter morire o voler uccidere.

In questo mondo in cui il linguaggio sofisticato di Bataille parla di matrimonio pop o non pop, non ha posto l’amore più semplice e vero, quello incarnato dal personaggio del regista Tom, così come non molta importanza nemmeno il cinema. Jean Pierre Leaud (l’attore-feticcio di François Truffaut) non è solo Tom, il fidanzato di Jeanne, ma rappresenta nella sua ricerca del cinema-verità (sta girando con la donna un film dal titolo Ritratto di ragazza), un chiaro riferimento alla Nouvelle Vague. Maria Schneider non è solo la borghese Jeanne, ma l’emblema di tutto un movimento «dopo la Rivoluzione» alle prese con il riflusso e con la tendenza al conformismo delle regole della famiglia occidentale vero oggetto della pubblicità consumistica. Il cinema del reale si trasforma quasi subito in cinema borghese/ipocrita dato che il solo fatto di essere consapevoli di restare all’interno di un film, provoca una distorsione dell’immagine di se stessi: Jeanne perde la propria identità per aderire a l’immaginario borghese di fidanzata-moglie-madre con i suoi splendidi bambini (se maschio verrà chiamato Fidel come Castro, se femmina Rosa come Rosa Luxemburg, ma Rosa è anche il nome della moglie di Paul). Tutto ciò non avverrà mai nel film, perché Bernardo Bertolucci a differenza di altri autori post 68’ rimarrà fedele al suo sogno seppur infranto da una società in via di normalizzazione.

Potremmo così definirlo il più femminista dei registi, considerato che il personaggio di Jeanne si libera dalla strumentalizzazione della sua persona attuata attraverso il sesso, oltre che con un falso modo di essere protettivi: sarà lei a occuparsi di Paul e poi a disfarsene eliminandolo in quell’atto estremo attraverso il quale tutto viene messo in discussione per essere ricreato e plasmato, forse attraverso un nuovo cinema a cui il maestro stava già pensando.


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