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L’uomo caduto sulla terra - Addio David Bowie

Pubblicato il 11 gennaio 2016 da Alessandro Izzi


L'uomo caduto sulla terra - Addio David Bowie

In fondo, quello di L’uomo che cadde sulla terra era davvero un ruolo scritto apposta per lui.
Gli cadeva addosso come un capo d’alta sartoria. Elegante nella sua essenzialità. Privo di cuciture visibili. Elastico e comodo intorno a un corpo ingombrante che pure appariva esile. Minuto quasi.
E la malinconia che traspariva dallo sguardo di questo alieno piombato sulla terra aveva la distanza nebbiosa di un paesaggio inglese. Gentile e ostile al tempo stesso.
Come la sua voce che aveva la consistenza del velluto e lo stesso strano calore di un cappotto di quelli leggeri all’apparenza, ma foderati dentro della lana più morbida.
Allo stesso modo della sua musica. Rock, ma con intelligenza. Patinata, ma senza il glamour della moda fine a se stessa. Raffinata, ma senza leziosità. Capace di rivolgersi al presente, pensando al futuro, ma con un passato alle spalle importante e profondo.
Come L’uomo che cadde sulla terra, appunto. In sintonia prima di tutto con se stessa e per questo capace di essere avanguardia con la certezza profonda delle radici di un mestiere consumato. Capace di dirci, di raccontarci e per questo colonna sonora ideale del nostro sconcerto, della nostra indecisione e anche dei nostri sogni, della nostra utopia, del nostro crescere e costruirci.
David Bowie si è prestato al cinema con parsimoniosa insistenza. Non solo per dare voce alle malinconie più azzurre e ghiaccio del cinema di Roeg dove lui era l’uomo e noi gli alieni. Ma anche per essere corpo per fantasie di volta in volta diverse.
Per questo si è consegnato all’eternità sfuggente, ma illusoria del vampiro (Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott) un altro ruolo che gli calza come un guanto e che prefigura la sua sorte triste. Immortale per la musica, invecchia precocemente e si consuma nel dolore e nella malinconia. Dandy malato, evanescente e pallido canta la rabbia inespressa del non essere della stessa sostanza della sua arte e ugualmente immortale. Un mistero che sospira il suo lento sparire che è condanna senza appello. Mentre la musica è quella di un violino, sussurrata nell’esecuzione e dilaniata dalla furia della sete prima del suo stesso spegnersi.
Ma è stato icona pop prestata con un sorriso al Labyrinth di Jim Henson. L’inizio, questo, di una serie di apparizioni di lusso che suggellavano la sua appartenenza al mito: Ponzio Pilato per Scorsese (L’ultima tentazione di Cristo) inquietante evanescenza per David Lynch (Fuoco cammina con me) Andy Wharol per Julian Schnabel (Basquiat) se stesso in Zoolander.
Il cinema italiano l’ha accolto ne Il mio west con Pieraccioni ed è già rimpianto che non abbia potuto essere di più.
Un’icona, quella di David Bowie, che non ha disdegnato nemmeno la televisione, concedendosi il lusso di fare l’host della seconda stagione di The Hunger in cui riprendeva sembianze da vampiro per star dietro a storie di Eros e Thanatos, di paura e desiderio. Suggelli entrambi della sua esistenza e della sua arte.
Philip Glass gli rese omaggio con la sua quarta sinfonia, la Horoes Symphony che tra le volute ipnotiche del suo minimalismo lasciava trasparire il ricordo delle sue melodie portandole nella sala da concerto delle grosse orchestre dove ancora sembrava a casa sua.
Frattanto le sue canzoni, sempre bellissime, sempre avanti, si incastonavano in quasi cinquecento titoli tra TV e cinema. E chissà quanto teatro…
Ma a noi piace ricordarlo nella scena più commossa e commovente di The perks of being a wallflower dove Heroes cantava il sogno di una generazione confusa e fresca, affamata di futuro e di affetti veri, di sincerità e candore anche nelle incertezze del sesso e dei primi baci raccontati senza i falsi pudori di una borghesia sempre ipocrita e ottusa.
Il tutto mentre una macchina attraversa in corsa una galleria e la musica a palla, dalla cassetta di un autoradio, ci accompagna fuori del tunnel e della lunga notte.
Anche per questo grazie, David, per averci accompagnato un po’ più in là. E per averci lasciato tanto di te a farci ancora compagnia.


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