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LA FORZA VISIVA DEL CINEMA MUTO

Pubblicato il 5 marzo 2007 da Sergio Naitza


LA FORZA VISIVA DEL CINEMA MUTO

Complice un cinema di regime e dei telefoni bianchi che iniziava a nascondere i regionalismi e le culture del Sud, complice l’avvento torrenziale del sonoro che faceva invecchiare di colpo i film muti, La Grazia di Aldo De Benedetti, uscito nel 1929, riceve accoglienze critiche apprezzabili ma modeste di pubblico. E presto finisce nel dimenticatoio. Anche in Sardegna: poche, risibili orme del suo passaggio nonostante una prima a Cagliari il 5 dicembre 1929 quasi in contemporanea nazionale (il debutto fu a Padova, al cinema Vittoria, agli inizi di novembre). Recensioni convenzionali sulla stampa della penisola, a parte una esaltazione del giovane Alessandro Blasetti (aveva appena girato Sole) che scrive: ‘Un film pieno di bellezza, realizzato con evidente passione, anzi con evidente consacrazione d’artista, un nuovo appello all’indifferenza che in ogni sfera si consacra al problema politico, artistico, economico della cinematografia. Film italiano che dimostra in De Benedetti un senso formidabile dell’inquadratura e del chiaroscuro, che presenta scene sulle quali il criticare, anche se la critica è mossa dallo stesso autore, è colpa’.
C’è, in fondo, una ragione per questo entusiasmo: Blasetti e De Benedetti sono amici, tira aria di comunella fra i due grandi talenti, pilastri su cui contare per un rilancio del cinema italiano. Esiste una lettera in cui Blasetti raccomanda a De Benedetti come assistente, proprio per il film La Grazia, un giovane di nome Solaroli: ‘Egli desidera assistere alle ‘prese’ del suo prossimo film e collaborare, se possibile e necessario, gratuitamente. Son certo che la sua amicizia non vorrà negarmi questo che le domando in nome dell’amicizia come un personale favore’. La missiva svela una sintonia fra i due autori, che poi si ritrovano a lavorare insieme per La contessa di Parma (1937) regia di Blasetti, sceneggiatura di De Benedetti, Gherardo Gherardi, Mario Soldati e Libero Solaroli, evidentemente il giovane raccomandato nella lettera che ha poi fatto carriera. De Benedetti scrive per Blasetti anche un altro film chiave del cinema italiano, Quattro passi fra le nuvole (1942), che contiene il germe del neorealismo. Comunque la recensione infiorettata di lodi pubblicata su Il Tevere il 27 novembre 1929 pare davvero esagerata alla direzione, così nel numero successivo, appena una settimana dopo, il 2 dicembre, il titolare della rubrica di critica cinematografica Dino Terra ridimensiona Blasetti e La Grazia ritenendolo ‘nel complesso un buon film ma da questo riconoscimento a diventare un nuovo prodigio dell’arte e della capacità tecnica italiana ce ne vuole e parecchio’. _ La verità, come spesso accade, sta nel mezzo: La Grazia non è un capolavoro a cinque stelle ma neppure un filmetto secondario. Nasce attraverso un’operazione originale e rischiosa, per merito dell’A.D.I.A. (Autori Direttori Italiani Associati), cui si aggiunge una coproduzione inglese, tedesca e francese, dettagli non secondari perché danno un senso europeo al progetto di De Benedetti. L’ A.D.I.A. è un consorzio fondato alla fine del 1927 di cui fanno parte Mario Camerini, Gaetano Campanile Mancini, Gabriellino D’Annunzio, Aldo De Benedetti, Luciano Doria, Augusto Genina, Roberto Leone Roberti, Guglielmo Zorzi, presidente Giuseppe Ravasini. Nomi forti per un gruppo battagliero di cineletterati che riesce a far nascere quattro film – Brigata Firenze, Kiff Tebi, La vena d’oro e appunto La Grazia – prima di fondersi, e morire subito, con la milanese Sacia. C’è in questo creativo consorzio la volontà e la consapevolezza di uscire dalle secche del conformismo, andando verso il film d’arte. E La Grazia, sulla carta, ne ha tutte le caratteristiche. Esce alla fine del 1929, dunque con gli ultimi fuochi del cinema muto. Di diritto appartiene a quel periodo d’oro - ma nel momento fatidico del crollo: l’anno dopo esplode il sonoro – eppure porta con sé i segni di una vitalità artistica, di una intelligente mediazione fra più piani: il teatro, l’opera lirica, la pagina letteraria e il cinema, naturalmente, arte moderna con la vocazione a inglobare e riassumere fonti e tradizioni culturali diverse. A far da collante, il nome di Grazia Deledda, fresca di premio Nobel per la letteratura (1926), portatrice-evocatrice di un mondo segnato da una forte radice autoctona, quello della Sardegna. E’ lei a firmare nel 1894 la novella Di notte che fa parte della raccolta ‘Racconti sardi’: una tetra tragedia rusticana di innocenza, tradimento e morte dove tra atmosfere alla Edgar Allan Poe, una scelta stilistica di salti temporali (la novella è in sostanza un racconto nel racconto, con il secondo che è un flashback, espediente che diventerà poi, col cinema, topos narrativo) e richiami caravaggeschi, l’epilogo approda ad una svolta epico-divina. _ Nel 1921 la Deledda trasforma con Claudio Guastalla la sua novella in un libretto d’opera pubblicato dalla Ricordi e nel 1923 La Grazia, diventata opera lirica, debutta al Costanzi di Roma con le musiche firmate da Vincenzo Michetti. Una prima che arriva dopo vicissitudini produttive, come scrive Michetti nelle lettere che invia agli impresari del Costanzi, lamentandosi dei loro inadempimenti, dei tagli, delle imposizioni di cantanti, dei continui rinvii. L’opera ha successo, si replica a Pesaro ma finisce lì la sua vita. Dalla novella al palcoscenico lirico La Grazia rafforza il finale (ora il miracolo è più marcato) ma non perde la sua sardità: lo spartito conserva cori sardi, la scene sono firmate da Giuseppe Biasi, pittore amico della Deledda, con uno studio preparatorio dettagliato nella scelta degli ambienti e dei costumi per l’opera lirica. Sono rimasti i bozzetti originali di Biasi, non le foto della rappresentazione, andate distrutte in un incendio. Sei anni dopo ecco la trasposizione cinematografica, affidata alla regia di Aldo De Benedetti, uomo di teatro e di cinema, abilissimo maneggiatore di congegni narrativi, destinato a diventare un grande autore di commedie brillanti (Non ti conosco più, Due dozzine di rose scarlatte) e sceneggiatore per Blasetti, Mattoli, Bragaglia, Bonnard, De Sica, Matarazzo, Germi e di una infinità di titoli a cavallo fra il 1930 e il 1950. E come regista, De Benedetti ha già fatto gavetta firmando Marco Visconti (1925) interpretato da Amleto Novelli e Anita (1927) protagonista Rina De Liguoro, due film biografici ben accolti. Con alle spalle un percorso letterario e lirico-teatrale, La Grazia, dunque, nasce come una operazione linguistica matura: non rinuncia alla base melodrammatica che fa parte della tradizione operistica, non cancella la traccia della narrativa deleddiana (che ha - è importante sottolinearlo ancora - una costruzione più ardita rispetto all’impianto cronologico della pellicola), mostra una raffinata composizione dell’immagine, in un gioco rivelatore di chiaroscuri e movimenti della cinepresa, soprattutto sfrutta alla perfezione i contrasti d’ambiente. Comunque un rischio – chissà quanto calcolato – si percepisce nella scelta di portare sullo schermo questa scheggia di sardità: ridicolizzare un ‘mondo a parte’ della cultura italiana, trasmettendone l’aspetto esotico (una Sardegna in costume regolata dalla legge della vendetta) che fa leva sul mito del buon selvaggio, adatto al palato di ogni spettatore già educato alle conquiste del colonialismo italiano in Eritrea, Libia, Etiopia. _ C’è la garanzia del nome di Grazia Deledda che da quel mondo sardo però viene e quindi sa cosa racconta. Può non bastare: perché il cinema nel suo frenetico lavoro di trasposizione si permette leggerezze e superficialità spesso dannose. Non ci sono tracce negli scritti della Deledda, dei suoi rapporti con l’opera e il film. L’archivio di Aldo De Benedetti, custodito dal nipote Vittorio, parte dal 1932, di tutta l’attività precedente c’è poco o nulla: i materiali sono andati persi o lo stesso De Benedetti li eliminò nelle periodiche opere di pulizia. Però il nipote ricorda una conversazione con lo zio in cui si diceva ‘onorato di aver ottenuto l’incarico di dirigere il film’ e che ‘sottopose il copione a Grazia Deledda, ricevendone in cambio apprezzamenti’. Ovvero il via libera da parte della scrittrice – come accadde per Cenere con Eleonora Duse – che scorgeva nel cinema un modo, aggiuntivo e diverso, per concretizzare il suo progetto di raccontare per immagini la Sardegna (‘Ho anzi un sogno solo, grande, ed è di illustrare un paese sconosciuto che amo molto intensamente, la Sardegna’). Dunque il rischio-colonizzazione c’è, tanto che nella recensione pubblicata su Cinematografo il 10 novembre 1929 siglata N.B. si legge: ‘Dalla visione del film si ha l’impressione di trovarsi tra gente ancor rozza e vendicativa in cui l’unico impulso buono è promosso dalla religione proprio come fra popoli primitivi. E se poi consideriamo vicino a questo ambiente quello supermodernista in cui vive la capricciosa pittrice, una Greta Garbo in dodicesimo, il contrasto accentua ancor più la primitiva mentalità e gli usi di questi montanari dai costumi medioevali. Si finisce col non sapere se si deve considerare questo film una favola realistica o una realtà fantastica’. Miopie culturali del tempo, in epoca più recente un critico avveduto come Ugo Casiraghi puntualizza: ‘Non è alla attendibilità della regione e dei suoi costumi che si affidano le ricerche della regia, quanto alla estenuata valorizzazione del linguaggio dei chiaroscuri e degli sguardi: delle prospettive scenografiche e dei movimenti di macchina, in cui il cinema muto sembra celebrare, con splendida ieraticità, il rito della propria imminente consunzione’. E’ un concetto, questo dell’uso del segno regionale, che giustamente Gianni Olla nel suo volume Scenari sardi definisce un processo di museificazione che ‘non fu né una invenzione specifica del cinematografo, né una trovata contingente. Aveva le sue radici in una immagine della Sardegna, formatasi alla fine dell’Ottocento e proiettata all’esterno fin da allora, dentro la quale i romanzi deleddiani e successivamente i pochi film a lei ispirati, si inserirono facilmente, espandendone i segni in strati di pubblico nuovi’. Processo di codifica che nel Novecento, per esempio, intraprendono pittori come Delitala, Tavolara, Biasi e Melis, non a caso questi ultimi due coinvolti ne La Grazia opera lirica e film. Insomma una idea di Sardegna che parte dal folclore, si contamina con la sua rielaborazione intinta in esperienze oltre Isola e ritorna come segno nuovo eppure vicino ad una identità sarda. _ Il film di Aldo De Benedetti si mette su questa scia, con una forza innovativa e sapiente: rompe con i canoni illustrativi, punta su un uso coraggioso delle scenografie. Insomma: più della storia, qui conta lo spirito visivo. Ecco allora che nel cast sono fondamentali gli apporti di Fernando Martini, direttore della fotografia, l’operatore ‘africano’ (sue le immagini di Kiff Tebi, film coloniale o meglio storia d’amore esotica di Camerini, prima produzione dell’A.D.I.A.) e dello scenografo Alfredo Montori, che lavora al celebre kolossal Ben Hur girato in Italia nel 1923 da Fred Niblo. E poi compare anche il nome di Goffredo Alessandrini come ‘autore delle scene moderne’ che tre anni dopo debutta nella regia con La segretaria privata (1931). Collaboratori di qualità, che sono un valore aggiunto per il film. Ma che cosa può aver attirato De Benedetti? Quale molla lo spinge ad accettare la messinscena di una novella di Grazia Deledda, così marcatamente sarda tanto da girarla in costume? Sicuramente la curiosità intellettuale e gli stimoli offerti dalla sua famiglia di solide tradizioni culturali. Ricorda il nipote Vittorio: ‘Suo nonno, sovrintendente alle gallerie di Firenze, era stato un celebre letterato e una sorta di mecenate che aveva introdotto nei salotti romani poeti come Pascoli e Carducci; sua madre era traduttrice in più lingue e lei stessa scriveva. A casa si faceva quotidianamente musica, per il salotto passavano personaggi del tutto eccezionali, musicisti come Respighi o Mascagni, che vennero introdotti nella vita romana proprio dalla famiglia De Benedetti’. Diventa più semplice allora pensare che il regista è sedotto dall’opera La Grazia, debitrice peraltro della Cavalleria rusticana di Mascagni. Di sicuro c’è una buona sceneggiatura di Gaetano Campanile Mancini (padre del più celebre scrittore Achille) e socio con De Benedetti nell’A.D.I.A., che affina le sue armi di scrittore per il cinema lavorando alla riduzione di film stranieri. E ne La Grazia questo tocco, chiamiamolo esterofilo, si vede con l’introduzione del personaggio della donna fatale. Una donna emancipata, sicura di sé, indipendente, pittrice che vive nel lusso di una casa di città (anche se la città non è mai citata), un salto vertiginoso rispetto a Cosema, ‘l’altra’ donna della novella, bella, giovane e ricca; innamorata ma meno vistosamente adescatrice. A De Benedetti interessa molto questo personaggio: perché è il prototipo di una femminilità che incarna le inquietudini di una Italia fuori dalla morale conformista, anticipa la galleria di donne astute e decisioniste slegate da una condizione di accettazione di una felicità fittizia piagata da un maschilismo rigido, pone l’adulterio come una tentazione contro la realtà del matrimonio indissolubile, come pulsione intima che va a sbriciolare l’ordine delle cose. Elementi che saranno poi cesellati nell’oliato meccanismo ironico della commedia Non ti conosco più (1932) e in tanti copioni per il cinema. De Benedetti e il suo sceneggiatore Campanile Mancini lavorano per irrobustire il canovaccio della Deledda, composto praticamente da due scene madri. Aggiungere polpa e diluire, quindi ma nella stesura finale il film non è così distante né dalla novella né dal libretto d’opera. Resta il fulcro della storia. Elias, giovane arrivato in un paese dell’interno della Sardegna per ereditare le terre di una zia, s’invaghisce di Simona, una bella pastorella, alla quale strappa con violenza un bacio dopo un incontro casuale in una grotta. La sera stessa, è la vigilia di Natale, Elias solitario è ospite nella casa di Simona, invitato dal vecchio padre. Un gioco di sguardi basta per concedere il perdono e trasformare il secondo incontro in una notte d’amore. Il giorno dopo Elias parte con la promessa che tornerà presto per sposare Simona, che inizia a tessere l’abito nuziale. Il giovane invece è travolto da una valanga e si risveglia nel lusso raffinato di un appartamento. Ancora nella confusione post incidente, Elias cade nella rete di una donna seduttrice. Simona intanto dà alla luce una figlia, nata dalla notte d’amore con Elias, ed è costretta a rivelare alla famiglia l’identità del padre. I fratelli di Simona, ormai disonorata, catturano Elias: hanno l’ordine del capofamiglia di ucciderlo. Ma al momento dell’esecuzione compare Gabina, la piccola figlia, che cade colpita da un fulmine. E’ morta ma tra le braccia del padre ritorna in vita. Un segno del cielo che cancella la vendetta e riporta la pace nella famiglia. Siamo nel territorio del melodramma - retaggio obbligato, visto che pulsa nella tradizione culturale italiana - eppure il film cerca strade diverse, contaminazioni con altre correnti d’avanguardia, un incontro/scontro di opposti, un passare dall’interno all’esterno - il paese, la città – che si può, forzandone il senso, leggere come una metafora della Deledda, prima chiusa nella Nuoro isolata, poi libera nella Roma aperta ai contatti con il mondo. _ Anche se La Grazia film resta dentro il microcosmo deleddiano, rispettandone quel rosario di elementi – dramma familiare, passione focosa, tradimento, vendetta, morte, festa paesana, segno divino – che sgrana ogni trasposizione cinematografica. Ma qui c’è in più una capacità di interpretare il testo letterario, più originale e sfrontatamente ambiziosa rispetto alla lettura ‘illustrativa’ delle pellicole che arriveranno quasi vent’anni dopo. Il primo impatto rende evidente la semplicità della struttura del film, pensata proprio per blocchi contrapposti. Carne e fede, innanzitutto: la debolezza umana e la salvezza divina, il complesso di colpa e la provvidenza, cardini narrativi tipicamente deleddiani. Da questo punto di vista il film non rischia, si immerge nel peccato ma torna nel rassicurante alveo familiare, la redenzione passa prima per un pellegrinaggio al santuario della Madonna, quindi per il miracolo risolutore. Poi: da una parte il mondo pastorale (le pecore, la casa rustica, la taverna, il paesaggio innevato, squarci di strade del paese, i costumi), dall’altra il mondo cittadino, riassunto nella casa della donna seduttrice vestita alla moda dalle moderne architetture. Un cortocircuito visivo fra proletariato e borghesia, fra naturalismo ottocentesco e interni futuristi, dove c’è la mano di Melkiorre Melis, autore dei bozzetti vicini - per gusto e cultura figurativa aperta alle influenze cosmopolite di quegli anni - al lavoro di Biasi per le scene di La Grazia opera lirica. De Benedetti mantiene una composizione geometrica in questo contrasto semantico ricco di segni e segnali. Occhio alla scenografia che dalle pareti della casa di Simona a quelle dell’amante usa la decorazione romboidale come un bizzarro continuum: dal tappeto sardo si passa ad una tenda così che il rombo disegnato dal taglio folk cambiando ambiente, gusto e cultura diventa stilizzato ed evoluto. _ Il film lavora aggiungendo altri blocchi antitetici: l’evento naturale, che è rappresentato dalla valanga che travolge Elias portandolo dalla realtà al sogno (si risveglia in una casa dall’arredamento fiabesco, ma è come se fosse in trance); e l’evento soprannaturale, ovvero il miracolo che resuscita la figlioletta, dove Elias passa da un momento onirico (il segno di Dio) alla realtà ritrovata. Il doppio si dilata, diventa cuore del racconto. È doppia la morte scampata da Elias: prima si salva dalla valanga, poi dallo sparo del fucile; è doppio il perdono che ottiene: prima da Simona dopo il bacio rubato, poi dal padre di lei attraverso la grazia. Doppia è la seduzione, nella sfaccettatura di attivo e passivo, da seduttore a sedotto: prima concupisce Simona, poi è lui la vittima quando cade nelle grinfie della donna fatale. Due donne che rappresentano due avventure diverse, una legata alla realtà, l’altra al sogno; una che incarna l’amore pulito finalizzato al matrimonio, l’altra che rivendica il sesso, l’erotismo, il peccato non inclusi nell’amore. Entrambe sono costruite per contrapposizione di mondi separati. Simona, la pastorella, è umile, semplice, sottomessa, Penelope che cuce l’abito da sposa nell’attesa che Elias ritorni, costretta a nascondere il cosiddetto figlio della colpa e cedere alle leggi della vendetta familiare; la donna fatale incarna invece la femminilità indipendente, rivendica autonomia e potere decisionale di conquista, è una pittrice, vive nel lusso, sa come sottomettere gli uomini. Simona ha la faccia dolce della diva del muto Carmen Boni, la seduttrice ha lo sguardo maliardo della polacca Ruth Weyher: anche in questa scelta d’attrici, regna il gioco degli opposti. Con un dettaglio perfino beffardo, almeno per Elias, nella scena in cui vuole scappare dalla casa ma è trattenuto dall’amante che dalla sua bisaccia toglie gli abiti di Simona: quando compare lo scialle, i disegni floreali sopra ricamati sono quasi gli stessi dell’abito della seduttrice (anche qui il folk che diventa moda), come se le due donne si sovrapponessero, diventando agli occhi del disorientato Elias, facce - appunto opposte – di una stessa medaglia. _ A questi continui scatti emotivi - il film esaspera le passioni, l’amore ha lo strazio di un sentimento totale - il triangolo di attori è chiamato a sottolineature psicologiche, ad una mimica facciale e ad una gestualità che l’assenza della parola rendono fondamentali. Carmen Boni tiene una costante irrequietezza d’animo, sguardo docile e ferito: in quell’atteggiamento riservato, nella bellezza nascosta anche un po’ repressa sembra proprio una donna sarda (Tra l’altro sposerà il regista Augusto Genina, amico di De Benedetti col quale aveva già lavorato ne Il corsaro (1923), che firmerà nel 1950 la regia di Delitto per amoreL’edera). A Ruth Wehyer basta una alzata di sopracciglia per incarnare la vamp, circe incantatrice, e una provocante discesa per le scale (con ammaliante soggettiva) mentre Giorgio Bianchi, baffetto malandrino, fisico aitante, occhio liquido, tiene la parte di Elias sul binario dell’incubo ma senza strafare, misurato e credibile. Negli anni Quaranta Bianchi passerà alla regia diventando prolifico autore di commedie brillanti e per lui De Benedetti scriverà soggetto e sceneggiatura di alcuni film tra cui Vent’anni, Il mondo vuole così, Via Padova 46. Il resto del cast funziona, a cominciare dalla barba bianca che incornicia il volto ieratico di Bonaventura Ibanez, spagnolo trapiantato in Italia, che aveva già lavorato con Carmen Boni in L’ultimo lord (1926). E per finire con i figuranti che non sono sardi (resta qualche dubbio su Piero Dossena diventato poi Cocco) ma che, in linea con il principio di rassomiglianza del film, potrebbero anche esserlo. Comunque Aldo De Benedetti non cerca negli attori una recitazione teatrale ma sembra invece seguire modelli teatrali per accentuare la differenza fra i blocchi narrativi del film. Non c’è contrasto di stile - né nella ripresa, né nel montaggio – nel ritrarre questi mondi diversi, anzi vige una certa uniformità: è la macchina da presa che diventa mobile e con lente carrellate in avanti scopre personaggi e ambienti. Succede quando Elias è solo fra le vie del paese o quando entra nella bettola; stesso movimento della cinepresa per descrivere la casa futurista della donna fatale. Una regia pulita, di inquadrature lunghe, con qualche sbavatura di montaggio. Nella sequenza in cui Simona vede comparire Elias catturato dai due fratelli (dopo uno stacco sulla donna, il terzetto riprende dalla stessa posizione) e nella ripetizione rapida della scena in cui Elias è travolto dalla valanga. C’è un errore, ma si può anche pensare ad un preziosismo stilistico memore delle teorie sovietiche che in quegli anni avevano trasformato il cinema o ad un rafforzativo linguistico che corrisponde al letterario ‘a me mi piace’, talvolta usato come sottolineatura emotiva. Si può pensare ad un’altra ipotesi: non dimentichiamo che siamo nel periodo del muto e l’immagine è sovrana, quindi la doppia scena potrebbe significare letteralmente ‘un uomo travolto dal destino’, una metafora cara al manifesto futurista, i cui frutti architettonici sono citati nel film. Al di là delle interpretazioni, la regia di De Benedetti è attenta a sfruttare il primissimo piano allusivo, almeno in tre momenti importanti: la mano di Simona che apre il chiavistello, il filo della tela che si spezza, simbolo di un brutto presagio, i piedi dell’uomo che rapisce la bambina. È alle donne che De Benedetti regala più primi piani, Elias alla fine appare il risultato dei loro sguardi e delle loro decisioni. Di sicuro tifa per la seduttrice, per la quale il regista sceglie i momenti più caldi cinematograficamente: perché i due baci fra Elias e Simona, uno estorto, l’altro di saluto prima della partenza, sono in campo lungo; ma quelli fra Elias e la donna fatale sono stretti fra il primo piano e il campo medio. In più di Ruth Wehyer sono carnalmente mostrati i dettagli degli occhi e della bocca e delle spalle nude. E’ anche vero però che Elias, vittima di se stesso e del destino, è il motore della storia, un corpo estraneo destabilizzante: è uno ‘straniero’, viene dal mare, metaforicamente per la concezione storica sarda, è un invasore che turba l’ordine della comunità e da questa prima è respinto, perché ha infranto le regole, poi (con l’intervento divino, non della comunità) annesso. Infatti Elias trova accoglienza interessata, per vicinanza sociale, nella casa della seduttrice che ha - rivalsa di classe - come servitori una sbarazzina coppia vestita in costume sardo comandata da un maggiordomo in frac. _ La scena riassume lo scontro e la contaminazione fra i due mondi. Berritta, bentone, carzonis, zimarra, cosinzos, cuguddu, camisa, imbustu, fardetta ovvero l’abbigliamento tipico maschile e femminile con la sua suggestione arcaica trova nella casa futurista fatta di forme sinuose e sghembe, lampioni, tende, vasi, cuscini, libreria, oggettistica art déco, segni grafici di frecce e triangoli che puntano verso l’alto e il basso imprimendo movimento all’ambiente, una curiosa commistione tra il cattivo gusto e l’azzardo postmoderno. È come se l’arcaicità della Deledda, riassunta nel costume sardo che diventa immaginario bozzettistico per la divulgazione popolare, si adattasse al linguaggio evoluto mantenendo una specificità. Siamo al nodo cruciale: l’elemento scardinante di La Grazia, che a distanza di oltre settant’anni lo rende importante per una riflessione sul regionalismo inserito in una cornice cosmopolita e, in particolare, sul tema ‘Sardegna al cinema’ è il modo nuovo – allora, nel 1929 – di piegare l’elemento sardo ad uso creativo, senza scadere nel vieto folclorismo o nello stereotipo. _ La Sardegna de La Grazia è visibilmente falsa, il set non è quello dell’Isola. I costumi non hanno rigore, gli ambienti neppure: citano la radice, la copiano, la stravolgono per ottenere il risultato della similitudine. Lo scorcio campestre si rifà ad una generica iconografia del Sud Italia (basta notare che i muretti di divisione non sono a secco come quelli sardi), i suonatori di launeddas (quali launeddas?) che irrompono la notte di Natale assomigliano agli zampognari del presepio, il fico d’India nella grotta è una forzatura, l’interno della bettola così pieno di oggetti, poco ortodossi con la tradizione isolana, sembra l’emporio di un droghiere, il nuraghe ha addiritura una struttura piramidale. Ma è una scelta d’interpretazione cinematografica che nel tradimento programmato – il cinema di finzione non fa antropologia – e nel pericoloso costeggiare il kitsch, conserva nella reinvenzione della radice isolana una inconsueta forza. Tanto che nel contrasto violento con il mondo futurista e art déco, che è il punto d’arrivo per i desideri di un pubblico che inizia a scoprire gli immaginari del cinema americano, il mondo pastorale sardo per quanto bozzettistico a prima vista non sembra il regno esotico del buon selvaggio ma un luogo dove la cultura trattiene i suoi aspetti più profondi, lasciando emergere una ricchezza visiva unica.

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