La pecora nera

Approda al cinema uno dei nomi di punta del panorama teatrale italiano.
Ascanio Celesini esordisce (in concorso alla 67 Mostra del cinema di Venezia), con La pecora nera (film tratto dal quasi omonino spettacolo teatrale La pecora nera elogio funebre del manicomio elettrico).
A voler essere precisi, non si può parlare di opera prima in senso stretto, dal momento che Celestini ha già firmato la regia di Parole Sante (documentario sul precariato presentato con successo due anni fa sempre a Venezia). E a voler essere ancora più puntigliosi, il film non è esattamente “tratto” dallo spettacolo, bensì si trasforma nella sua raffigurazione, nella sua illustrazione nel senso più stretto del termine. Conosciamo e abbiamo più volte apprezzato, le qualità del menestrello, cantastorie e incantatore. Abbiamo rimarcato il garbo, lo stile, l’originalità nella scrittura e nella scelta delle vicende da narrare. Ma quello che ci appare qui è un Celestini nuovo, diverso. Un Sansone che, sceso dal palcoscenico, perde di improvviso tutta la sua forza e la sua potenza tradito dalla macchina da presa. La pecora nera è un film tristemente vuoto, privo dell’essenza stessa del cinema e della magia del teatro. Un susseguirsi di inquadrature tenute insieme dall’unico collante della voce narrante. Della magia evocata da un solo piccolo uomo al centro di un palcoscenico con nessun altro ausilio se non la sua straordinaria capacità di rendere visibile l’invisibile, non c’è traccia. La sottrazione e la ripetizione, che sono la chiave del fascino del teatro di Celestini, si trasformano in didascalica banalità. I personaggi, i luoghi e i ricordi si materializzano sul grande schermo privi di anima. Ma non possiamo imputare a Celestini tutta la responsabilità di questo, inconsistente, risultato. Lui gioca in maniera onesta, non vuole tradire lo spettatore e non intende prenderlo in giro.
Mette se stesso in gioco, rischia il tutto e per tutto. Forse ci sentiamo delusi perché il suo nome è ormai associato alla nascita di mondi straordinari e fiabeschi che mal si adattano ad una ordinaria e piatta narrazione e forse non aiuta la fotografia, troppo perfetta, di Ciprì. Non c’è nulla di speciale, di straordinario, nulla di quello che la Voce ci aveva fatto intendere, appare materializzato davanti ai nostri occhi, che allora si sentono traditi.
Spiazzato, lo sguardo cerca e aspetta che appaia sullo schermo qualche cosa di formidabile. Ma tutto è ordinario, piatto e prevedibile. Scorgiamo qualche sprazzo qua e là, nei volti di due bambini mascherati che mangiano ragni e si innamorano chiusi nella soffitta dell’oratorio, ma poi lo straordinario scompare per lasciare alla quieta disperazione della vita di un gruppo di poveri matti rinchiusi in manicomio. Forse non c’è immagine capace di rendere l’universo che la voce di Celestini evoca. Come per un racconto di Gabriel Garcia Marquez, la rappresentazione appare inutile e superflua. Perché la parola aveva già svolto il suo compito, aveva già mosso il cervello, spingendolo verso altri lidi, verso nuovi orizzonti. Quindi viene solo da chiedersi se fosse realmente necessario costringere nello spazio concesso dallo schermo l’abbondanza barocca della fantasia di Ascanio Celestini.
(La Pecora Nera); Regia e sceneggiatura: Ascanio Celestini; fotografia:Daniele Ciprì; montaggio: Giogiò Franchini; interpreti: Ascanio Celestini (Nicola), Giorgio Tirabassi (Ascanio), Maya Sansa (Marinella), Alessia Berardi e Luisa De Santis; origine: Italia, 2010; durata: 86‘.
