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La pelle dell’orso (Conferenza stampa)

Pubblicato il 1 novembre 2016 da Stefano Colagiovanni


La pelle dell'orso (Conferenza stampa)

Giovedì 27 ottobre, Casa del Cinema di Roma. Dopo la proiezione del sorprendente La pelle dell’orso (che uscire nei cinema il 3 novembre, distribuito da Parthénos), il regista Marco Segato, gli attori Marco Paolini e Lucia Mascino e il produttore Francesco Bonsembiante (Jolefilm) si presentano alla stampa per rispondere ad alcune domande.
Dalla conferenza stampa vengono fuori idee chiare, nessun giro di parole e alcuni concetti da cui trarre spunti a dir poco interessanti.

L’obiettivo focale del film è quello di mettere in libertà narrativa due creature (una diabolica, ovvero l’orso, e l’uomo, Pietro) destinate a estinguersi. E’ questo il filo conduttore del film?

Marco Segato: Quando abbiamo cominciato a riscrivere il libro, era nostro desiderio portare il padre e l’orso vicino all’idea di un’epoca che sta per finire: loro sono due rappresentanti di un mondo (quello del dopoguerra) di grandi cambiamenti, che si confrontano con una sorta di futuro incerto, poichè non c’è più asilo sia per una bestia che vive in una natura particolarmente selvatica, sia per un uomo non socievole o adatto a inserirsi in una comunità.

Marco Paolini: Viviamo in un mondo liquido e quella del mio personaggio è una figura di un padre da non prendere come modello, non positiva ed educativa. E’ una figura che non accetta il cambiamento, avendo un corpo solido, come quello di un sasso...e in una società liquida, uno così s’attacca a quello che può.

Durante la realizzazione del film c’è stato il desiderio di confezionare un film d’intrattenimento, ma pur sempre di genere, essendo chiaramente un film d’avventura?

M.S.: L’idea di renderlo un film di genere è arrivata ancor prima di cominciare a realizzarlo. Con Francesco Bonsembiante e Marco Paolini ci piaceva l’idea di realizzare un film che andasse incontro al pubblico, senza essere svilito dal ‘basso genere’, magari un pò meccanico...Così l’obiettivo era fornire un buon prodotto, senza rinunciare alla qualità che un cinema d’autore si porta dentro: una strada che in Italia, oggi, sembra un pò più battuta, perchè oggi è necessario riportare gli spettatori italiani in sala a vedere cinema italiano. Per La pelle dell’orso siamo partiti dalla passione comune per il genere western, per esempio, e da tutta una serie di meccanismi narrativi già ben collaudati (parlavamo di western alpino), partendo da temi classici per poi aggiornarli in un contesto diverso. Inoltre, mi piaceva l’idea di un film che non dovesse raccontare l’Italia dei nostri giorni, con la crisi e così via...tutte cose che trovo molto interessanti, ma che vedo spesso quando vado al cinema, quindi ho preferito proporre qualcos’altro che allontanasse un pò da questa tematica.

M.P.: Un western ha cambi di ritmo: prima si va piano, poi si galoppa, quindi si va veloce. Qui, l’unico che va veramente veloce in salita è l’orso, solo che è difficile stargli dietro con la cinepresa. Quando abbiamo girato c’era la minaccia di un orso killer di bestiame e c’era preoccupazione...poi nei paraggi viveva una geologa che era l’unica a non essere entusiasta delle riprese. Posso assicurarvi che la sensazione che mi è rimasta dentro riguarda proprio l’orso, che era come un tuono in salita. Tutto per dire che il potenziale per ‘la corsa’ c’è, ma poi c’è il rischio concreto di perdere l’orso e non stargli più dietro...

Lucia Mascino come si vede in questo ruolo femminile inserito tra padre e figlio, che necessitano di ricucire il loro rapporto?

Lucia Mascino: Innanzitutto, la storia mi è piaciuta proprio perchè riguardava la condizione di un padre e di un figlio di fronte a questa montagna. Poi c’era la sollecitazione derivata dalla tendenza al western che, per una che ama Clint Eastwood, viene facile prediligere questi spazi aperti e potenti visivamente...e anche accanto a un asino mi sentivo a casa. Inoltre, ero interessata a questo personaggio femminile che funge un pò da enzima, velocizza il processo di ritrovamento tra padre e figlio. Un ruolo femminile ‘famigliare’ che non fosse necessariamente quello di una madre o di una sorella: personaggio anche un pò spavaldo, piccolo, ma utile per il cambiamento della storia.

In un film che vuole essere un racconto, c’è la necessità di costruire una storia sulle sfumature, senza esprimerle in modo troppo esplicito?

M.S.: Eravamo partiti dall’idea di realizzare un film con pochi dialoghi, prendendo spunto da molti bei film secchi, essenziali, che esaltano il video. C’era questa scommessa di liberare due personaggi che si esprimono poco in un bosco, raccontando quelle sfumature che il pubblico (si spera) vuole cogliere e riempire con la propria esperienza e immaginazione. E’ tutto frutto di un lavoro consapevole e non di tagli di montaggio o ripensamenti.

La pelle dell’orso è un film di territorio, che marca un certo stile di vita, un dialetto, delle tradizioni folkloristiche. In che modo è iniziato questo percorso?

Francesco Bonsembiante: Il film ha una sua struttura che si basa sull’interpretazione di Marco Paolini e sull’esperienza di Marco Segato che ha lavorato a lungo con i documentari. In veste di produzione abbiamo voluto dare la possibilità a uomini di talento di intraprendere questo lavoro. Questo film ha nei paesaggi, nella ricerca di personaggi, nelle comparse e, più in generale, in tutte le raffigurazioni presenti, dei caratteri che nascono dal cinema di Carlo Mazzacurati.

Essendo per Marco Segato il primo lungometraggio di fiction, che impressioni ha ricavato da questo nuovo tipo di approccio?

M.S.: E’ arrivata la spinta del produttore (Francesco Bonsembiante) che da qualche anno mi dice che se gli avessi portato una bella storia, lui mi avrebbe dato modo di realizzare un film, considero il mio passato da cinephile, dato che ho organizzato rassegne, sono andato anche in Cina, amo il cinema americano...Poi è vero che per molti registi italiani, i loro lavori più interessanti vengono fuori se questi hanno avuto un passato da documentaristi, però volevo andare contro all’idea che per un documentarista, realizzare un film di fiction, dovesse significare per forza lavorare con la camera a mano... volevo fare una cosa diametralmente opposta.

Ha incontrato difficoltà nell’adattare il testo del romanzo di Matteo Righetto e quanto ha inserito di suo pugno?

M.S.: Siamo stati molto liberi a rinunciare a molte cose presenti nel libro, ma che non ci piacevano, così abbiamo cercato di alimentare quell’aspetto che ci aveva maggiormente toccato, ovvero la condizione tra un padre e un figlio che vanno a caccia di un orso e, durante questa caccia, si incontrano di nuovo, si conoscono. Matteo Righetto ha seguito le riprese del film, abbiamo discusso su molti aspetti...e siamo stati in grado di realizzare il film inserendo anche altre letture (Jack London, Cormack McCarthy). Sicuramente nel mio immaginario ha inciso anche Il Grinta dei fratelli Coen, nel senso di un modo di far cinema di spessore assoluto...ed è tutto finito nel mio progetto, come se continuassi a mescolare ingredienti in un gran calderone. Mi viene in mente anche Hayao Miyazaki in funzione del rapporto tra il bambino e la natura (Principessa Mononoke, Nausicaa della Valle del Vento).

Crede che i suoi colleghi italiani dovrebbero lavorare di più sul cinema di genere per rivitalizzare il cinema italiano?

Non so bene se il genere sia la ciambella di salvataggio per il nostro cinema, perchè per far cinema di genere ci vuole pratica e un tessuto produttivo ancor più strutturato del nostro, come lo si aveva negli anni Sessanta o Settanta. Non si può nemmeno avere la certezza di realizzare un film di genere e occupare un gran numero di sale, perchè c’è sempre il rischio di uscire con pochissime copie e di passare solo per pochi cinema d’essai. È un problema più ampio.


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