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LA POLITICA DEGLI AUTORI (THREE MORE STARS)

Pubblicato il 18 settembre 2002 da Alessandro Borri


LA POLITICA DEGLI AUTORI (THREE MORE STARS)

La serata presentata a Enzimi per la cura di Lorenzo Benedetti, Alessandra Migani e Rosanna Palermo è stata un’occasione preziosa per verificare sul campo il problema dell’autorialità nel videoclip. L’idea è di confrontare in 3 programmi altrettanti tra i migliori videomaker degli ultimi anni: finalmente una videografia non per artista o gruppo, ma per regista, sottraendo l’autore all’anonimità nella folla delle immagini (ancora troppo pochi sono i programmi che segnalano i registi dei clip presentati). Altri ovviamente se ne potevano scegliere, da Anton Corbjin a Tim Pope, da Spike Jonze a Garth Jennnings, ma le nostre tre stelle sono indubbiamente un buon viatico per visitare quelle inesauribili fucine linguistiche che sono i migliori videoclip. First Star. L’insuperabile Michel Gondry è il folletto di ogni possibile elaborazione dell’immagine-suono, talento fantasmagorico e dall’infinita fantasia manipolatoria, si applichi alla metropoli impazzita di La ville (Oui Oui) o ai boschi stregati di Human Behaviour (Bjork). I suoi temi portanti sono ben individuabili. Gli incontri laceranti tra natura e cultura, fabula tecnologica e innocenza panica: basti considerare tutto il corpus bjorkiano, da Army of Me a Joga, dagli incantamenti di Isobel agli abissi di Bachelorette. E poi le metamorfosi della materia visibile, sottoposta alle torsioni laceranti di Like a Rolling Stone (Rolling Stones) o alle traslazioni frattali di Let Forever Be (Chemical Brothers). Ma soprattutto i paradossi della continuità spazio-tempo: a questo riguardo Sugar Water (Cibo Matto), che confronta e incrocia in split screen due porzioni inverse e reversibili di tempo, è forse la più alta riflessione sul tema in forma di videoclip, insieme a Imitation of Life di Jennings per i REM; ma la reversibilità applicata alla vita onirica è il fulcro anche del geniale Everlong (Foo Fighters). Insomma l’opus di Gondry è un ventaglio di ipotesi di lavoro per riconsiderare la nostra percezione del mondo; vedi in particolare i clip per i Chemical Brothers: l’immersione nella percezione paranoica di Let Forever Be che prelude a quella già compiutamente digitale di Star Guitar. Genio ludico a tutto tondo, quello del francese: capace di risolvere inventivamente anche l’inserimento di spezzoni di film nel corpo del video (Deadweight, Beck, dalla colonna sonora di A Life Less Ordinary di Danny Boyle); di giocare coi lego per mettere in scena il neo-garage rock dei White Stripes (Fell in Love with a Girl) come di organizzare le coreografie robotiche di Around the World per la dance made in France dei Daft Punk; di padroneggiare infine la pura, dolorosa surrealtà del piano sequenza circolare di Knives Out (Radiohead), dove torna a citare Ophüls (il treno coi paesaggi che scorrono dietro Thom Yorke e Emma de Caunes, in stile Lettera da una sconosciuta), dopo aver reinventato il mitico dolly della Maison Tellier in un altro precedente capolavoro, Protection (Massive Attack). Second Star. Floria Sigismondi è giunta alla notorietà assecondando la morbosità glam di Marylin Manson in clip (Beautiful People, Tourniquet) saturi di cadaveri più o meno squisiti e entomologie argentiane, ma l’insieme dei suoi lavori rivela un mondo di ossessioni assai coerente e conseguente, caratterizzato dall’amore lynchiano per la deformità e l’outrage riversato in un linguaggio frenetico e sussultorio. Un estetismo malato fatto di ofelie drogate che si tramutano in Medusa (She Makes me Wanna Die, Tricky) e bambole che prendono vita in stanze gotiche (Black Eye, Fluffy - estremizzazione del Pope “curiano” di Lullaby), di sessualità mercificata in ambienti programmaticamente decadenti (Black Amour, Barry Adamson) o di guerre sotterranee un po’ alla Abel Ferrara tra peccato e santità, dove è ben chiaro dall’inizio chi avrà la meglio (She Said, Jon Spencer Blues Explosion). Anche David Bowie si è rivolto a lei per Little Wonder, ottendendone lo stesso cotè da Tim Burton in overdose di speed. La Sigismondi può però anche applicarsi a più leggeri giochi grafici lounge-futuristi (Get Up, Amel Larrieux) o più spiccatamente avant gard (4 Ton Mantis, Amon Tobin). Per l’ultimo Leonard Cohen (In my Secret Life) congegna invece una sit com kafkiana dove l’assurdo è ormai consuetudine, mentre con gli Shivaree (John 2/14) anche la favola si veste di vischiosità corporee e personaggi da manga psicotico. Third Star. Per presentare Chris Cunningham valga l’immagine più celebre della sua videografia: il corpo di Madonna che si frantuma, in Frozen, liberando un nero stormo di corvi sopra il deserto. La visionarietà di Cunningham è fuori dagli schemi, legata né solo a questioni concettuali o a mere estrinsecazioni del proprio inconscio. Il suo eclettismo, attratto dall’eleganza più di superficie come dalla sperimentazione selvaggia, riserva però sorprese continue. Ecco allora le escursioni subacquee di 36 Degree (Placebo) o l’estenuata cura della patina fotografica di Another Day (Lodestar); l’ammicco cinefilo di The Next Big Thing (Jesus Jones), con la sua scenografia kubrickiana a gravità zero, e l’alienazione urbana ritratta con potenza metaforica degna di Fincher (Africa Shox, Letfield e Afrika Bambataa). Ma Cunningham corteggia pure l’astrazione sensoriale (Second Bad Vibel, Autechre), aprendo al mondo robotico idealizzato poi nell’eros romantico e disperato di All is Full of Love (Bjork). E per verificare l’ampiezza della sua estensione immaginativa si applica ai noir al rallentatore dei Portishead (Only You) come alle ritmiche schizoidi della jungle: vedi il manicomio giapponese per esperimento cronenberghiano di Come on My Selector (Squarepusher) e gli inquietanti corrispettivi visuali per gli assalti sonori di Aphex Twin (l’horror di Come to Daddy; la parodia del gangsta rap che sfocia in una moltiplicazione genetica di Aphex condita con schegge di musical post-Michael Jackson in Window Licker). Insomma, per dirla in breve: chiamando Gondry si sceglie il pensiero, con la Sigismondi si opta per la trasgressione, qualunque cosa significhi, laddove Cunningham garantisce la bellezza, anche nell’orrore. Al programma era intelligentemente abbinato Radio On (1979), lo straordinario rock-road movie di Chris Petit, situato al centro perfetto tra la rivoluzione punk e l’avvento della new wave, che lo stesso Petit avrebbe anni dopo remixato, da perfetto VJ, in Radio On Remix (1998).

[settembre 2002]

Three More Stars: Sigismondi’Gondry’Cunningham 22 settembre 2002 Enzimi, Roma


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