X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



La Traviata di Giuseppe Verdi e Sofia Coppola

Pubblicato il 17 giugno 2016 da Anton Giulio Onofri


La Traviata di Giuseppe Verdi e Sofia Coppola

Se la sceneggiatura di un western hollywoodiano prevede una sequenza in cui sugli ampi e scenografici fondali naturali della Monument Valley una tribù di bellicosi nativi americani assale una diligenza che a bordo trasporta una prostituta, un alcolizzato, una donna incinta e un commerciante di whisky, a nessun executive producer verrebbe in mente di girare un esterno giorno così complesso ed elaborato in una discarica di rifiuti, dove a trasportare i passeggeri non fosse una carrozza trainata da cavalli ma un TIR con a bordo la cassiera di un supermercato, un punk, una musulmana integralmente nascosta nel suo chador, e uno spacciatore di eroina. Né approverebbe, l’executive producer, di assoldare, al posto di aitanti comparse a torso nudo pittate da pellerossa, un esercito di nani da circo equestre o una squadra di lottatori di sumo. Anzi. Un rigoroso casting selezionerebbe per i diversi ruoli attori e attrici con facce e attitudini il più possibile corrispondenti alle caratteristiche richieste, il location manager organizzerebbe la trasferta della troupe e di tutto il materiale tecnico necessario nel Gran Canyon, e il risultato finale mostrerebbe sullo schermo la fedele ricostruzione di un assalto alla diligenza, come previsto in sceneggiatura, con gli indiani minacciosi e inferociti, i passeggeri terrorizzati, in un trionfo di carrelli, primi piani e campi lunghi puntati su nient’altro che quanto riportato nello script. Il cinema, nel suo secolo e poco più di vita fortunatissima, è sempre stata un’arte “popolare”, e al popolo, per giunta pagante, che vuole divertirsi, non si può chiedere di pensare, riflettere, decifrare, decodificare: indiani che assalgono una diligenza nella Monument Valley fino all’arrivo di Ringo Kid e del Sesto Cavalleggeri che li disperderà allo squillo della tromba, anch’esso puntualmente indicato in sceneggiatura. That’s all. The End.

Prima della nascita e della diffusione in larga scala del cinema, il grande spettacolo popolare per eccellenza era l’opera lirica, che bene o male, come farà in seguito il cinema, trasportava il pubblico in epoche storiche e paesaggi geografici e mentali lontanissimi dalla prosaica quotidianità, con storie e personaggi forse inverosimili, e anche un tantino ridicoli, ma redenti ed esaltati dalla potenza evocatrice della musica. A chi oggi, parlando di un film appena uscito in sala, chiedesse “di cosa parla?” può suonare strano che centocinquanta anni fa si andava a teatro per assistere alla “nuova opera di…” senza tanto preoccuparsi dell’argomento del libretto: quello che più contava, e per cui si era disposti a pagare i soldi del biglietto d’ingresso, era soltanto ed unicamente il nome del Compositore. In un’opera lirica è la MUSICA a trascinare e commuovere, qualunque esito abbia il dramma vissuto dai suoi protagonisti. Se nella Bohème versiamo fiumi di lacrime perché nel darsi l’arrivederci a primavera Mimì e Rodolfo cantano sullo spettrale languore dei violini che ci informano dell’imminenza tutta invernale del mortale appuntamento con la tisi, è per via di quei geniali violini solisti che emergono dall’orchestra come la schiuma di un sogno che il grande mare di lì a poco riassorbirà e annullerà: è la musica, non le parole, né altro, a ficcarci in cuore la lama di una tristezza capace di accendere speranza e desiderio di felicità possibili, ma pure generare ricordi, rimpianti di un passato che non tornerà. Eppure c’è qualcosa che, più o meno comodamente seduti in un teatro d’opera, potrebbe pesantemente disturbare il nostro deliquio e il nostro abbandono cullati dai flussi sonori, e arrivare con invadenza a distrarcene, compromettendo l’estasi: pensiamo a una Bohème ambientata nell’odierna Parigi multietnica, dove Rodolfo fosse un rapper senegalese e Mimì una commessa rumena del reparto dvd e blu-ray della Fnac (e Marcello un graffitaro libanese che si guadagna da vivere illustrando con enormi topi di fogna dipinti in scala 1:100 le pareti esterne e senza finestre dei casermoni della Banlieue, mentre Musetta fa la cubista in un locale per sole donne e va in giro con tiratissime Madame del Seizième adescate in pista, che regolarmente finiscono col pagare il conto a lei e tutti i suoi amici sbandati e randagi): ecco, a meno di una regia dal concept rigoroso, realizzato con intelligenza e rispetto dello spirito del testo rappresentato, queste stranezze inattese potrebbero quantomeno disorientarci, ma andiamo con ordine.

Dagli anni del Boom economico del secolo scorso, che in Occidente segnarono l’affermazione a largo raggio di una società e di una cultura di massa con il supporto della riproducibilità tecnica di ballabili e spensierate canzonette in formato 45 giri diffusi dai mangiadischi portatili, l’Opera cominciò col trasformarsi via via in un fenomeno elitario, riservato a un ristretto pubblico di appassionati ed esperti, mediamente colti e informati sulle novità della letteratura e della produzione artistica, e non restò immune, per la sua propria natura di evento comunque teatrale e intellettuale, dalle nascenti avanguardie che diedero un po’ a tutto il sistema della Cultura e dell’Arte uno scossone in avanti scrollando via quella polvere e quella vetustà delle quali il ’68 fece più o meno piazza pulita. Il “contemporaneo” diventò una moda irrinunciabile per almeno un decennio, finché non venne fagocitato dal nefasto riflusso degli anni ’80, e, complici la rivoluzione sessuale e gli scandali suscitati da certi libri, film, spettacoli e performance artistiche, riuscì addirittura a trovare ampio spazio sui regolari canali d’informazione, come i rotocalchi e la televisione. Il matrimonio fra antico e contemporaneo parve dunque a molti sovrintendenti e direttori artistici di teatri d’opera e di festival musicali il modo più efficace e garantito per mantenere vivo l’interesse di un pubblico ansioso di “novità”, e solleticarlo a spendere. Videro così la luce spettacoli leggendari che, dismessi i fondali dipinti, nell’impossibilità di ripetere i miracoli compiuti da Luchino Visconti e in mancanza di nuove Callas e nuovi Karajan e Bernstein, puntarono tutto sulle “riletture” di registi rubati ai palcoscenici della prosa, non sempre connoisseur delle cose della Lirica.
Il primo a beneficiarne fu proprio chi, nel periodo attuale, soffre invece dei peggiori scempi perpetrati ai danni del teatro d’opera: Richard Wagner. Negli anni ’70 gente come Luca Ronconi e Patrice Chéreau rilessero in chiave hegeliana l’uno, marxista il secondo, la Tetralogia dell’Anello del Nibelungo: via elmi, lance, scudi e calzari, in favore di marsine e pastrani così come li indossavano i contemporanei dell’autore. In entrambi i casi, il risultato fu straordinariamente convincente. Con il passare degli anni e l’ingresso nel nuovo secolo le cose hanno iniziato a complicarsi, e a qualcuno il gioco è evidentemente sfuggito di mano. Oggi, specialmente in Germania, è impossibile allestire un Wagner senza che sul palcoscenico non si vedano screensaver, tartarughe Ninja, mignotte con parrucche fucsia, caterpillar al posto di draghi o cavalli, skinheads con chiodo, piercing e tatuaggi, e onnipresenti ufficiali nazisti con cani e scagnozzi al seguito. _ Portare un nipotino o una scolaresca a vedere un’opera a teatro comporta il rischio di dover impiegare ore, dopo lo spettacolo, a spiegare per quale motivo quel Mozart fosse ambientato a Manhattan, o perché Isotta sia morta in un ascensore... Ciò non significa che spesso, anche molto spesso, non si vedano spettacoli intelligenti e stimolanti, visivamente folgoranti, che pur stravolgendo trama e libretto, ne rispettano il senso illuminandoli con analisi suggestive e approfondite della struttura, della prospettiva storica, del contesto culturale in cui questa o quell’opera sono state ambientate e composte. E ci mandano a casa con la sensazione di avere addosso ancora “la musica” di quell’opera, maneggiata con l’umiltà di chi vuole mettersi al suo servizio, e non utilizzarla come colonna sonora degli estri egoriferiti dei “registar”.

Nell’enorme repertorio della Lirica ci sono una manciata di titoli che si prestano poco ai rimaneggiamenti praticati dai ragazzi terribili della scena mondiale chiamati ad allestire grandi opere del passato abusando di una libertà impensabile in altri contesti: nel cinema, per esempio, se un film appena uscito in sala è ambientato nel 1954, c’è un’apposita rubrica dell’Internet Movie Database (Goofs) pronta a smascherare con maniacale pignoleria ogni imprecisione, come un modello di automobile lanciato sul mercato due anni più tardi, o il riferimento a un fatto di cronaca accaduto in novembre, là dove invece la vicenda si svolge in estate… Impensabili sarebbero un’Aida senza le piramidi, una Carmen senza una plaza de toros (sebbene fu operazione azzeccata una Carmen in film ambientata in Sudafrica e cantata in lingua xhosa, Orso d’oro a Berlino nel 2005), un Cavaliere della Rosa lontano dalla Vienna di Maria Teresa; poi c’è La traviata, che il suo illustre precedente letterario, La Signora delle Camelie di Dumas figlio, impone obbligatoriamente a Parigi, verso la metà del secolo diciannovesimo. Il capolavoro di Giuseppe Verdi vanta poi un primato, tra le opere serie, che a detta di molti fu tra le principali cause dell’insuccesso della sua prima rappresentazione alla Fenice di Venezia, il 6 marzo 1853: dopo anni ed anni di eroi dell’antichità e della mitologia biblica, di nobili e sovrani dei periodi più cupi della storia d’Europa, il pubblico vide agire e cantare sul palcoscenico personaggi contemporanei, abbigliati come i signori e le signore sedute in sala, e si sentì oggetto di una critica feroce che, scavando nel profondo di paure sconosciute che mezzo secolo più tardi Siegmund Freud avrebbe scandagliato senza peli sulla lingua, diede parecchio fastidio. Da qui è partito il lavoro di Sofia Coppola, figlia del grande Francis Ford, il regista dei tre Padrini e di Apocalypse Now, e regista lei stessa di una mezza dozzina di film nei quali è andata definendo uno tra gli sguardi più originali e riconoscibili del cinema di oggi, asciugando, assottigliando sempre più la consapevolezza di chi guarda e che dunque sceglie cosa e come guardare, fino a raggiungere un’essenzialità così rarefatta da lasciarsi avvertire quasi come “assenza”: una telecamera a circuito chiuso puntata su un angolo di realtà dove non è nemmeno detto che debba accadere qualcosa. E se qualcosa accade, nessuno giudica, nessuno condanna o ne ha pietà. Viene mostrato soltanto l’evento nudo e crudo, che se avviene, avviene comunque a prescindere che lo si guardi accadere o meno. La Coppola, che ha oggi 45 anni portati con grazia adolescenziale, predilige storie di ragazze e ragazzi, come quella Marie Antoinette cui ha dedicato uno dei suoi film più ammirati e apprezzati. Ma con Somewhere, Leone d’oro a Venezia nel 2010, e poi con The Bling Ring, del 2013, si è spinta più in là, ed è arrivata a perfezionare questo suo sguardo mai protagonistico e che non sembra appartenere a nessuno in particolare, radicalizzando la celebre lezione di Billy Wilder, secondo il quale lo spettatore non avrebbe mai dovuto accorgersi della presenza della macchina da presa. E ha affrontato l’incarico affidatole da Sua Maestà Valentino, che con Giancarlo Giammetti è il patrono di questa Traviata del Teatro dell’Opera di Roma e l’ha scelta per concepirne la regia, come se fosse la sceneggiatura di un film di Hollywood, di quelle dove non ci si può prendere alcuna libertà pena il licenziamento in tronco.
Dell’imponente scalinata curva che ingombra i saloni della magione della Valéry, da molti criticata come scelta scenografica infelice e fuori luogo, piace invece pensare che sia l’enorme passerella di una gigantesca, aulica astronave ariostesca, il cui equipaggio composto da tutte le grandi protagoniste dei drammi musicati da Handel, Gluck, Cherubini, Rossini, Spontini, Bellini, Donizetti, e le eroine dello stesso Verdi, imponenti sculture di monumentali figure tragiche circonfuse dell’aura del mito e delle nebulose della storia, conceda a Violetta, che ne scende i gradini durante il Preludio, di sbarcare nel mondo reale della sua contemporaneità per sdoganare nel melodramma il dramma borghese, e divenire creatura autentica, carnale, capace di provare la stessa identica umanissima passione amorosa delle donne che ascolteranno le sue arie e i suoi gorgheggi.
Del libretto di Francesco Maria Piave Sofia Coppola ha seguito parola per parola e fedelissimamente ogni suggestione e indicazione, con l’intenzione di conferire ad ogni sillaba e frase del canto una corrispondenza gestuale o mimica realistica, credibile, esattamente come al cinema, dove se un padre e un figlio litigano, ed è previsto che litighino, che ne so, in salotto, nessuno dei due si metterebbe a tagliare a fette un salame o a sfornare una pizza capricciosa. Nessuna stramberia, nessuna simbologia astrusa, nessuna “interpretazione in chiave”. E ha applicato lo stesso sguardo che troviamo nei suoi film per dare, in quel caso, spazio assoluto al Cinema, qui invece adottato per lasciar trionfare indisturbato il melodramma in musica, assecondando il suo racconto di eventi e caratteri non più proiettati in un empireo irraggiungibile popolato di statue di marmo, ma gente come noi, che ama e, vivendo nel terrore di perdere la giovinezza, muore. Restituendo, in risposta a quei critici che l’hanno accusata di aver confezionato una regia “senza un’idea”, quel piacere quasi dimenticato, o quantomeno sempre più raro, di guardare un’Opera in teatro concentrati sulle architetture del canto, rapiti dai crescendo, commossi da quell’assurdo incanto – lo diceva Karl Kraus – di uno spettacolo in cui qualcuno prima di morire decide di mettersi a cantare.

Alla Coppola non interessa sovrapporre un’idea “sua” a un’idea già meravigliosa e perfetta come La traviata di Giuseppe Verdi. Come fa nei suoi film, dalle pagine più mondane e spettacolari a quelle più cameristiche, dolorose e intimamente tragiche dell’opera, la sua mano elegante, discreta, oggettiva si muove cauta tra le magnifiche scene, fastose ma senza esagerazione, di Nathan Crowley (collaboratore fisso di Christopher Nolan, per il quale ha disegnato le scenografie de Il Cavaliere Oscuro e Interstellar) e ci guida nel racconto come se tante macchine da presa inquadrassero ogni dettaglio per poi eventualmente utilizzarlo in un ipotetico montaggio cinematografico. Niente viene lasciato al caso: ci si accorge di situazioni che in tanti altri allestimenti firmati da registi “con un’idea” (a volte troppo spesso interessati più che altro a spalmare su Violetta, Alfredo e Germont la propria vision, impressionista, decadente, femminista, antiborghese o quale che sia) semplicemente sfuggivano trascurati, ignorati, o comunque mal gestiti e dunque di resa scenica debole. Basti per tutti segnalare, subito all’inizio dell’Atto I, a pochi minuti dalla fine del Preludio, l’istante in cui, appena arrivato alla festa, Alfredo viene presentato da Gastone a Violetta: si intromette, invadente e goffo come un antenato del proustiano Charlus invaghito degli occhi neri di Alfredo, un “Marchese” che per stringergli la mano intralcia il baciamano di rito, tanto che Gastone deve giustificarsi spiegando “T’ho detto: l’amistà qui s’intreccia al diletto". Una gag, pochi istanti, eppure mai la timidezza del giovane innamorato, la fugace folgorazione di Violetta nel trovarselo di fronte per la prima volta, la maldestra cafoneria del Marchese, la risolutoria mondanità di Gastone, tutto il quadretto è stato reso con tanta cura e chiarezza esemplare, quella chiarezza dettata dalla musica stessa di un genio, profondo conoscitore e traduttore in termini ritmici e melodici dei tempi di reazione e dei rapporti causa-effetto che disegnano l’arco di un’azione umana, anche se rappresentata nella finzione del palcoscenico. Le masse mondane dei festaioli, gentiluomini ottocenteschi in frac insieme alle loro dame ingioiellate dalle gonne ampie e svasate, sollevano il calice con gesto sobrio, composto, distantissimo da quelli che Arbasino chiama “gli orrori dello spontaneismo corale in caso di brindisi”, e altrettanto compostamente lasciano da soli a discutere, nella festa dell’Atto II, i due giovani innamorati da poco disgiunti, sciamando lentamente verso le terrazze per assistere, al di là delle vetrate di cristallo dei grandi finestroni affacciati su Notre Dame, ai fuochi artificiali del Carnevale; Annina paralizzata dall’imbarazzo quando, terminato il colloquio di Germont con Violetta, rientra per riconsegnargli il soprabito e avverte il peso di un’atmosfera irrimediabilmente compromessa e grondante futura infelicità, sotto il bigio cielo francese, via via più plumbeo e minaccioso, scheggiato da indifferenti voli d’uccelli; l’animata discussione tra Alfredo e suo padre, condotta e pensata in termini di campo e controcampo e stacchi rapidi sull’uno e l’altro, in cui Alfredo reagisce come reagirebbe un giovane di ogni epoca di fronte a un tanto sordido ricatto paterno, senza platealità, schiacciato sotto l’ipocrita impalcatura delle regole sociali, ma infuocato di giovinezza ardente d’amore; lo stesso Germont, il vero capolavoro concettuale di questa Traviata del Teatro dell’Opera di Roma, interpretato, nella recita del 28 maggio cui fanno riferimento queste righe, da un monumentale Roberto Frontali, non più “orrendo topone” (altra citazione arbasiniana) baluardo dell’ipocrisia e della bigotteria della Francia cattolica e perbenista di metà Ottocento, ne esce personaggio restituito come mai prima d’ora in tutto il suo nobile e comprensibile tormento di padre obbligato a comportarsi contro ogni effettivo istinto del cuore. Quanto granitico può finalmente suonare il suo ammonimento oggi attualissimo, che un bastardo come ce l’avevano sempre dipinto mai pronuncerebbe in questi tristi tempi femminicidi: “Di sprezzo degno se stesso rende chi pur nell’ira la donna offende”… Non si eccede mai nei consueti orpelli e cascami che troppo spesso sciupano tante Traviate. Gradite, ed è questo un vero miracolo, risultano perfino le danze alla festa di Flora, risolte con gusto ed estro scalmanato, e l’intenzione precisa di non annoiare, dalle coreografie di Stéphane Phavorin.

Complici del turgore di una serata così tesa sul piano estetico ed emozionale sono state le due voci di Francesca Dotto e Antonio Poli, belli giovani e freschi come la coppia di amanti verdiani (Marie Duplessis, che ispirò a Dumas la Marguerite messa in musica da Verdi con il nome di Violetta, morì a soli 23 anni) e la bacchetta di Jader Bignamini, scrutatore attento e illuminante levigatore di una partitura spogliata di tanti vizi depositati in 150 anni di prassi esecutive non sempre impostate sul gusto e sull’eleganza: è anche grazie alla sua concertazione che una pagina quasi considerata “brutta” come “Di Provenza il mar, il suol”, ne è uscita trasfigurata in un’affermazione struggente di fede e di amore per la propria famiglia e per le proprie radici.

In conclusione, una Traviata che attraverso gli occhi del cinema di Sofia Coppola ha ritrovato, insieme alla sua lirica eleganza, l’ardore innamorato della sua anima “popolare”. Chi non fosse riuscito a vederla quest’anno (incasso record di un milione e duecentomila euro, tutte le recite sold out ancor prima di andare in scena, e già venduta al Giappone e all’Opera di Valencia), potrà recuperarla l’anno prossimo: sarà di nuovo per 5 serate nel cartellone del Teatro dell’Opera di Roma dal 29 ottobre al 4 novembre 2017.


(La traviata); Musica: Giuseppe Verdi; Regia: Sofia Coppola; Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Jader Bignamini; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma


Enregistrer au format PDF