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Venezia 77 - Laila in Haifa

Pubblicato il 10 settembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Venezia 77 - Laila in Haifa

Nel suo personalissimo Notturno, Amos Gitai ci trasporta ad Haifa, scoprendo le tinte fosche di un mondo dai contorni ancora non ben nettamente delineati. L’occasione è quella di un’esposizione fotografica: nel retrobottega di un night club si susseguono le istantanee con cui odio, guerra e rabbia vengono immortalati e appesi ad una parete. Laila (Maria Zreik), organizzatrice della mostra e incarnazione stessa del crepuscolo che sembra gravare su tutto e su tutti (il nome, in ebraico, significa proprio “notte), vaga per i corridoi senza una meta precisa. Anche questa pellicola sembra proseguire il Leitmotiv principale del Festival, ovvero quello dei lacci interposti fra individui solo in apparenza distanti. Così, nel giro di poche ore, s’incontrano i destini di Gil (Tsahi Halevi), Kamal (Makram Khoury) e Bahira (Bahira Ablassi), nell’ordine: un artista ormai disilluso, un imprenditore più naif di quanto non si creda e una giovane palestinese dallo sguardo spento e dallo spirito irrequieto. La cinepresa si muove fin troppo lentamente e l’effetto è a dir poco estraniante: nessuno si parla davvero e nelle orecchie di chi ascolta s’accatastano frasi vuote – vocaboli che hanno perso ogni significato, ombre prive del corpo da cui un tempo si generarono. Come chiunque spii dal buco di una serratura, anche lo spettatore si sente a disagio di fronte a questo microcosmo apatico e indifferente. Amenità e tragedia si alternano in continuazione, il risultato è la totale indolenza: la patria, qui in forma di fotografia, verrà venduta al miglior offerente e trascinata oltreoceano. Popoli a cui è stato insegnato a odiarsi reciteranno il copione senza troppa convinzione. E i dissidi continueranno il loro corso grazie ai soldi di chi, letteralmente, “possiede mezza città”. In questo valzer distopico, ognuno tradisce i propri momentanei affetti, senza tuttavia essere davvero consapevole delle sue azioni. Nei suburbi della città portuale, gli avvenimenti si dipanano senza nessuna conseguenza, non c’è personaggio che sia in grado di prendere l’iniziativa o di enunciare un pensiero reale. Per quanto interessante appaia la sovrapposizione fra l’eloquenza triviale di una sottocultura americanizzata – esemplificata dalla musica assordante e dagli spettacoli patinati che il locale mette in scena – e il mutismo generale in cui questa generazione sprofonda, dopo la prima mezz’ora non si capisce dove il film voglia andare a parare: l’impressione è quella di assistere ad un’opera che utilizza lo stesso idioma criptico dei suoi protagonisti. La regia ammette pochissimi tagli, il pubblico viaggia di volto in volto senza arrivare davvero a nulla. Fra le pareti di un simile sottosuolo vediamo amanti che s’ingannano, sconosciuti che s’incontrano senza mai davvero incontrarsi, e perfino la brutalità viene perpetrata senza nessuna logica di fondo. E forse il principio cardine attorno a cui ruota l’intero arco narrativo è proprio questa totale indifferenza: “non si può parlare di politica” afferma il ricco appaltatore, che è anche – guarda caso! – il marito di Laila. E, guarda caso, quest’ultima ha una relazione clandestina con Gil, l’impassibile artista per il quale la quotidiana violenza è semplicemente questione di routine. C’è qualcosa nell’aria, qualcosa di cui tutti vorrebbero e non vorrebbero discutere. Una palestinese e un’israeliana dialogano, sforzando di scontrarsi (cosa che accade soltanto in superficie). Se la prima cerca di elencare le atrocità subite in passato, la seconda prova a percorrere la via della riconciliazione, ma entrambi i tentativi falliscono miseramente. Una coppia di omosessuali decide di viversi a pieno quella che forse sarà l’ultima serata insieme, ma invano. Una ragazza reticente a sottomettersi viene picchiata per la prima volta dal marito, e sappiamo benissimo che purtroppo succederà ancora. Gitai apre abissi che richiude l’attimo immediatamente successivo, e a noi non è consentito nemmeno di sbirciarci dentro. Le crepe che attraversano questa Haifa notturna non si rimarginano, ma non s’aprono nemmeno su burroni: ci si limita a rimanere immobili, interagendo con gli altri il meno possibile e tacendo anche quando si prova a comunicare. L’effetto è volutamente snervante, così come snervante è l’ordinaria passività che circonda Haifa: “andiamocene da questo schifo” propone Laila all’amante fotografo, ma in fondo non ci crede neanche lei.


CAST & CREDITS

(Laila in Haifa); Regia: Amos Gitai; sceneggiatura: Amos Gitai, Marie-Jose Sanselme; fotografia: Eric Gautier; montaggio: Yuval Orr; interpreti: Maria Zreik (Laila), Khawla Ibraheem (Khawla), Bahira Ablassi (Bahira), Naama Preis (Naama), Tsahi Halevi (Gil), Makram J.Khoury (Kamal), Hanna Laszlo (Hanna), Clara Khoury (Roberta), Hisham Souleiman (Hisham), Tom Baum (Tom), Asher Lax (Asher), Andrzej Seweryn (Andre), Amir Khoury (Amir); produzione: Agav Films (Laurent Truchot, Amos Gitai), CDP Productions (Catherine Dussart); origine: Israele, Francia 2019; durata: 99’.


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