Le sel des larmes - Berlino 2020
Alla non giovanissima età di 72 anni Philippe Garrel esordisce a Berlino e viene direttamente accolto nel concorso con un originale film piacevolmente vintage, intitolato Le sel des larmes (Il sale delle lacrime). Il paradosso originale+vintage (in conferenza stampa Garrel parlerà di tradizione e modernismo) nasce dal fatto che il film si basa su una sceneggiatura borghese, ben fatta, non a caso scritta dal decano degli sceneggiatori francese ovvero Jean-Claude Carrière (anche lui come Wolfgang Kohlhaase del 1931), qui accompagnato nella stesura da Arlette Langmann (di una quindicina d’anni più giovane), sceneggiatrice di Pialat e di altri registi francesi (nell’ultimo ventennio di almeno cinque film di Garrel), mentre lo stile registico e della messa in scena (una serie di personaggi tipologici che vedremo, bianco e nero, uso di ellissi, uso straniato della voce fuori campo a mo’ di commento, sostituzione ma anche, in certi casi, ridondanza) segnalano, seppur a distanza di molti anni, stilemi tipici della nouvelle vague, che a quella "certa tendenza del cinema francese" per citare il celeberrimo saggio di Truffaut si era vibratamente opposta.
Insomma è come se Garrel sessant’anni dopo l’esordio della nouvelle vague avanzasse la non modesta ambizione di coniugare cinema borghese e cinema modernista. La domanda sorge spontanea: ci è riuscito? Secondo noi sì, piuttosto bene.
La storia è presto raccontata. Dalla provincia arriva a Parigi un giovanotto belloccio (esame di ammissione a una celeberrima scuola di ebanisteria) e alla fermata del bus incontra una ragazza Djemila, con cui subito attacca discorso chiedendole di rivedersi (qui il film poteva diventare un film molto chiacchierato tardo-Rohmer, ma l’avvicinamento è molto silenzioso, fatto solo di sguardi, i due parlano poco, splendide le scene nel bus) si rivedono, ma soprattutto a causa di una irresolutezza di lei compicciano ben poco, con un certo disappunto di lui, che vista la malaparata accelera addirittura il ritorno al paesello (costellazione chabroliana), dove vive in una condizione quasi arcaica insieme al vecchio padre a cui è legato da grande affetto e con cui condivide il mestiere. Ad anticipare quel che accadrà alla fine del film li vediamo lavorare insieme alla costruzione di una bara. Pochi sia nelle sequenze parigine che nelle sequenze provinciali i segnali di modernità, lo spettatore si chiede: ma che in epoca siamo? Domanda resa ancor più stringente al momento in cui Djemila, apparentemente pentita della sua irresolutezza, comincia a scrivere a Luc lettere nelle quali manifesta la propria voglia di rivederlo: l’inquadratura della cassetta della posta, di nuovo, fa pensare a un passato quasi remoto.
Alle lettere di Djemila Luc stenta a rispondere, del resto nel frattempo ha rivisto una vecchia compagna di scuola ritornata al paesello, Geneviève, con cui inizia una storia molto passionale che ha tutta l’aria di diventare molto seria, il padre benedice il legame. Djemila invano si fa il viaggio al paesello, invano aspetta Luc in una triste pensioncina che potrebbe essere quella in cui lavorava Antoine Doinel in Baci rubati.
Ma poi arriva un’altra lettera: e Luc torna a Parigi, perché lo hanno accettato alla scuola di ebanisteria e deve separarsi da Geneviève, incinta. Senza esitazione Luc rifugge dagli impegni famigliari e di fatto rimesso piede nella capitale dimentica Genieviève, iniziando una storia con una terza ragazza Betsy, legata a sua volta a un altro uomo, insomma ménage à trois, Jules et Jim relaoded, in poche parole. A poco valgono i moniti per lettera e de visu del padre che sembrano invitarlo ad assumersi qualche responsabilità, in altre parole a crescere, Luc è e resta un bel superficialotto, neanche simpaticissimo, ma in grazia del suo bell’aspetto assai seducente per le donne. Solo la stupenda scena finale, quintessenziale nella sua struttura nouvelle vague, che non riveleremo, potrebbe portare seppur tragicamente a una qualche maturazione del giovanotto.
Si sono citati Rohmer, Chabrol, Truffaut, ma il vero nume tutelare di questo film è – per Garrel la cosa non stupisce – Jean-Luc Godard, sia la primissima produzione che, soprattutto, quella mediana di fine anni ’70, inizio anni ’80, in particolare Si salvi chi può (la vita), di cui riprende la sostanziale tripartizione e il carattere episodico ed ellittico, dividendone anche il medesimo direttore della fotografia, il notissimo Renato Berta. Il film, qua e là forse un po’ troppo voyeuristico nella rappresentazione dei corpi femminili, qualche premio potrebbe raccattarlo.
(Le sel des larmes); Regia: Philippe Garrel; sceneggiatura: Jean-Claude Carrière, Philippe Garrel, Arlette Langmann; fotografia: Renato Berta; montaggio: François Gedigier; interpreti: Logann Antuofermo (Luc), Oulaya Amamra (Djemila), André Wilms (il padre di Luc)), Louise Chevilotte (Geneviève), Souheila Yacoub (Betsy); produzione: Rectangle Productions, Parigi; origine: Francia-Svizzera 20219; durata: 100’