Les regrets - Roma 2009 - Concorso

Né con te né senza di te: a ventotto anni da La signora della porta accanto, un altro autore francese torna a riflettere sulle deflagrazioni della passione nel quotidiano, sull’utopia dell’idillio amoroso e sui rapporti di dominio insiti in ogni relazione di coppia. Cédric Kahn – classe 1966 – riprende il sentiero tracciato da François Truffaut per il suo primo lungometraggio a soggetto originale (il terzo in realtà, ma il primo da quando è salito alla ribalta internazionale), dopo quattro pellicole realizzate partendo, rispettivamente, da Moravia (La noia, 1998), Pascale Froment (Roberto Succo, 2001), Simenon (Luci nella notte, 2004) e Magda-Lapière (L’avion, 2005). Lo fa raccontando l’esplosione (o implosione?) di una passione controversa nata dal nuovo incontro di due innamorati mai riusciti a cancellare il ricordo di quel sentimento lancinante.
Quello tra Mathieu (Yvan Attal) e Maya (una Valeria Bruni Tedeschi, di nuovo esaltata, dal cinema francese, nell’estrema fisicità di una femminilità sensuale e intellettuale) è uno sguardo fatale che li precipita di nuovo nel vortice troncato molti anni prima dall’uomo, stanco di questa relazione instabile, ingovernabile.
Come ne La femme d’à côté, il desiderio sprigionato dallo sguardo si incarna materialmente in due carrelli in avanti che muovono dall’uno all’altra, cancellando la distanza fisica e spaziale, e rimuovendo la realtà esterna – che da questo momento sembra assumere dimensioni ectoplasmatiche – per lasciar emergere un piano narrativo che è pura emanazione del sentire dei protagonisti. Dall’amore che tutto sovrasta e unisce all’ossessione dell’uomo rifiutato che conduce all’apice del racconto, ma senza gli esiti estremi del mélo del 1981.
Les regrets, infatti, trasforma la morte – intesa come momento supremo del tessuto melodrammatico – e una linea narrativa crescente, che trova il suo acme nell’omicidio-suicidio della coppia, in un eterno ritorno del sentimento, in un tempo circolare senza alcuna linea progressiva, in cui gli anni trascorsi vengono cancellati con un colpo di spugna dall’apparizione epifanica dell’amato o dell’amata.
Per questo la ripetizione ossessiva del motivo di Philip Glass, in luogo di un più convenzionale melodrammatico crescendo musicale, riesce a scandire con precisione il logorio prodotto in Mathieu da questa immagine ritornante, e il suo consecutivo cedimento, la deviazione fatale dalla retta via matrimoniale e lavorativa, che finisce per scardinare la routine più radicata. Non c’è morte, allora, nel film di Cédric Kahn e in questo sta l’allontanamento dal modello truffautiano: la sua è piuttosto una morte interiore, che induce paradossalmente a un finale più cupo di quello trovato dalla coppia Depardieu-Ardant, finalmente vicina nella morte. I nuovi amanti incarnati da Mathieu e Maya restano invece confinati in due piani spazio-temporali lontani, destinati a rincontrarsi per sempre, e in fasi emotive difficilmente conciliabili.
Come non pensare allora alle relazioni afasiche raccontate da diversi autori francesi contemporanei che, all’interno di una cinematografia da sempre magistralmente incline all’esplorazione del sentimento amoroso, non fanno che ritrarre, con sfumature e stili variabili, un atteggiamento incredulo di fronte alla parola amore. Che non trova altra forma d’espressione se non nel ripiegamento introverso – come in Pérsecution di Patrice Chéreau – o lotta contro l’estrema fragilità e volatilità di questo sentimento: “Aimes-moi moins mais aimes-moi longtemps” (amami meno ma amami a lungo) – implorava Louis Garrel nel finale di Les chansons d’amour e allo stesso modo la bella Léa Seydoux gli si negava perché consapevole di non riuscire a sopportare l’inevitabile abbandono nel finale di La belle personne, entrambe pellicole di Christophe Honoré.
Unendosi a questo fronte compatto, Cédric Kahn porta il mélo nella sua poetica, continuando a raccontare uomini “nel tunnel” – come i protagonisti di La noia e Luci nella notte o lo stesso Roberto Succo, che dentro la sua lucida follia vive una crisi esistenziale non troppo dissimile dagli altri personaggi del cinema di Kahn – e la sfiducia nella coppia (quella di Les regrets fa da contraltare alla logorante routine che attanaglia i borghesi di Luci nella notte). L’amore, sembra dire Cédric Kahn, costruendo la metafora sull’analogia tra l’amore e l’architettura, non è altro che un’ "idea idealizzata", un’utopia giovanile, proprio come il plastico realizzato da Mathieu durante i suoi primi studi di architettura, “una follia da studente, impossibile da realizzare”.
(Les regrets); Regia e sceneggiatura: Cédric Kahn; fotografia: Céline Bozon; montaggio: Yann Dedet; musica: Philip Glass; interpreti: Yvan Attal (Mathieu), Valeria Bruni Tedeschi (Maya), Arly Jover (Lisa), Philippe Katerine (Franck); produzione: Les Films du Lendemain, Maia Cinéma; origine: Francia 2009; durata: 105’
