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Liberami di Federica di Giacomo

Pubblicato il 21 settembre 2016 da Antonio Pezzuto & Mazzino Montinari


Liberami di Federica di Giacomo

Teste che roteano, gatti neri sacrificati, gente che vomita liquidi verdi. E poi colpi di tosse, urla, e la voce, roca e profonda: la voce del diavolo. È questo quello che ci si aspetterebbe da un film sugli esorcismi, ma di questo c’è ben poco in Liberami di Federica Di Giacomo, fresco vincitore della sezione Orizzonti a Venezia, documentario sugli esorcismi in una Chiesa in Sicilia, o, se preferiamo, documentario che indaga il nostro rapporto con il male.

Ne parliamo io e Mazzino che questo film lo abbiamo anche visto nascere, e lui prende di petto la questione, e, un po’ titubante, dice: “Senza troppe premesse, Liberami è un film con tante sfumature che racconta il nostro contemporaneo attraverso diversi generi cinematografici, ed è difficile scegliere un punto di partenza. Quindi, così in modo secco dico che Federica Di Giacomo e Andrea Sanguigni (e cioè la regista e lo sceneggiatore) hanno intercettato persone che cercano un rimedio, l’esorcismo, per risolvere un loro disagio, una perdita di contatto col mondo, e dunque nel prendere questa strada sembrano rivolti al futuro, al come vivere domani. In realtà sono costantemente rivolti al passato, a quello che li trattiene alle spalle”. E continua: “Non guardano il mondo dove vivono, non lo osservano, non sono interessati neanche a tratteggiarlo. Sono il punto di partenza e d’arrivo del loro malessere, e il mondo ha inizio solo se trovassero se stessi. Per certi versi, lo sguardo analitico degli autori del film, anche di chi ha lo ha scritto, di Greta De Lazzaris e Carlo Sisalli che hanno fatto la fotografia e di Aline Hervè e Edoardo Morabito che ne hanno realizzato il montaggio, segue questo andamento. A differenza di Wang Bing che guarda il mondo contemporaneo e vi scova gli individui che lo popolano, Federica (inutile nascondersi dietro il cognome per mistificarne l’amicizia) osserva da vicino, e mette noi spettatori nella prospettiva di chi cerca se stesso”.

E quindi Mazzino da un lato mi crea contrapposizione tra quelli che non guardano il mondo dove vivono e quelli che questo mondo non solo lo guardano, ma lo riprendono anche e ci costruiscono delle storie, e dall’altro mi cita Wang Bing, anche lui quest’anno a Venezia Orizzonti, con Bitter Money, altro capolavoro passato al Lido sul rapporto tra denaro e lavoro, o meglio, tra lavoro e vita. E anche Wang Bing, come la Di Giacomo, i suoi personaggi li osserva da vicino, ma non interagisce mai. Lo si sente dietro la macchina, curioso ma un po’ distante. Federica è invece passione e sentimento e anche se non interagisce, la si sente fremere, lei e la sua videocamera, mentre guarda esorcisti ed esorcizzati. E a me il discorso di Mazzino mi lascia un po’ perplesso. Lo sento troppo concentrato sul tema del film, e ovviamente sono d’accordo con quello che pensa sugli esorcizzati, ma a me interessa il film, non il tema. E gli chiedo (e mi chiedo) se è importante, ai fini "dell’analisi" del lavoro, credere o meno al diavolo, e soprattutto, nel caso ci credessimo, se ha importanza credere a Padre Cataldo come vero esorcista. Mazzino, ovviamente, non crede né al diavolo né alle possessioni. “Non credo – dice - nemmeno al bene e al male. Penso, però, che qualcosa di noi stessi ci impedisca di essere nel mondo, di istituirlo con gli altri. In un certo senso è come se al posto della relazione di reciprocità (istituisco un mondo nell’atto stesso di viverci) sostituissimo quella, appunto, del possesso. Uno scontro tra me che vorrei possedere il mondo e il mondo che possiede me, tra il mio sapermi orientare e l’essere alla mercé di qualcosa di superiore. Un rapporto di forza nel quale l’esistenza si divide tra vincere e perdere”. E continua a non parlare del film, e quindi tocca a me dirgli quello che io ho visto, e io ho visto Federica che ha deciso di focalizzare lo sguardo su un esorcista particolare, in una Palermo particolare, concentrandosi su tre personaggi particolari. E già questo mi sembra un sacco di materiale (Palermo, il prete, la situazione sociale, la Chiesa, tre persone). E poi l’ho vista assumere diverse posizioni con tutti questi soggetti. Il prete lo ha di fronte a lei, Palermo e la situazione sociale alle spalle, gli indemoniati sotto di lei, posseduti non solo dal diavolo ma anche dalla telecamera che li penetra e non li abbandona mai. Federica non ha lo sguardo morale, saccente e un po’ ammiccante che io purtroppo vedo nell’ultimo Rosi o in Pietro Marcello (e che so che invece Mazzino non vede), non ha opinioni, o almeno non parte con opinioni. Poi magari nel corso del film la sua posizione si precisa maggiormente (e questo credo sia un bene). Indulge sul grottesco in alcuni momenti ma questa è una delle sue caratteristiche stilistiche. Non domina mai i suoi personaggi, non ne viene mai dominata, mostra sempre grande rispetto. E il film ha un finale che ribalta tutti i dubbi sul prete che si possono avere avuti e lo inserisce in un contesto completamente diverso dove non è più centro ma periferia. E che sia riuscita a fare questo parlando di un tema che ha così tante articolazioni, penso che renda molto interessante il suo lavoro. E Mazzino dice: “Quello che dici mi trova assolutamente d’accordo (Evito di fare riferimenti a Rosi e Marcello perché chissà dove andremmo a finire). Se lascio a te l’onore di tratteggiare questo film è perché sono pigro! A parte le battute, una delle possibili critiche che potevano essere rivolte a Liberami era il contesto, come dire, ristretto della storia. Palermo, la chiesa in una delle sue espressioni, alcuni fedeli smarriti. E per certi versi, quanto meno nella mia personale indagine sul cosiddetto cinema documentario, l’assenza dell’imprevedibile. Il film è ben scritto in partenza, capace evidentemente di assorbire ciò che ha incontrato durante le riprese e, infine, riscritto nuovamente bene in montaggio. Non vi sono imprevisti, come accade per esempio in Lasciando la Baia del Re di Claudia Cipriani o Cadenza d’inganno di Leonardo Di Costanzo (per limitarci a due titoli) perché, ripeto, i protagonisti sono rivolti a ciò che li vincola (che sia il diavolo o il mal di vivere poco importa) e non protendono invece verso qualcosa.

L’irrimediabile vince sull’imprevedibile. Perciò, per tornare a quello che secondo me tu chiami impropriamente il ‘tema’ del film, a colpirmi è che al di là del quadro antropologico e sociale, questo lavoro parla direttamente al nostro tempo, alle nostre sconfitte quotidiane, alla volontà di farsi aiutare nel trovare delle soluzioni anche a costo di obliare le cause di una disfatta, che sia dello spirito o del corpo. Ora ti faccio sussultare. Pensa a quando accettiamo quegli stupidi lavori che, oltre al compenso economico, ci fanno assaporare un minimo di partecipazione al mondo. Sono soluzioni che non ci danno alcuna ‘pace’, che non penetrano all’origine dei nostri problemi. Ognuno di noi, nel bene e nel male, ha un padre Cataldo. Forse con meno fascino, che fa meno ridere, che lascerebbe indifferenti gli spettatori in sala”. E capisco benissimo quando parla degli stupidi lavoretti, ma tant’è, e cerco di trovare una frase di chiusura sulla quale non possa replicare, e dico: “quindi un gran bel film?” e lui, però, replica: “Siamo nati e cresciuti con l’arte contemporanea e sai meglio di me che non è più in questione il ‘bello’. Però sì. Un gran bel film”.


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