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LIBRI - Quei bravi ragazzi

Pubblicato il 4 novembre 2007 da Sara Ceracchi


LIBRI - Quei bravi ragazzi

Proprio perché titolato come l’arcinota pellicola del sommo Scorsese, “Quei bravi ragazzi” sembra ammonire il lettore dal pensare la cultura italoamericana, cinema in primis, come una realtà circoscritta o dai confini angusti. Organizzato in due ricche sezioni, il saggio edito da Marsilio, a cura di Giuliana Muscio e Giovanni Spagnoletti, offre infatti una panoramica ricchissima sulle numerose realtà nate dalla fusione della cultura italiana con quella americana e sul loro senso all’interno della cultura d’oltreoceano e occidentale in generale. La prima sezione dell’opera intende definire la cultura italoamericana proponendo una serie di saggi concentrati sulle origini dell’identità culturale degli immigrati, plasmata negli spazi rimasti ad essi e ai loro figli, tra la considerazione non proprio incoraggiante degli emigranti da parte dei connazionali, e l’accoglienza sicuramente non sempre caldissima da parte dei cittadini americani. Se l’opinione comune, in special modo dopo la ritrovata unità nazionale, considerava gli emigranti alla stregua di traditori del suolo natìo, nel Paese di adozione gli italiani erano vittime, con conseguenze più e meno gravi, degli stereotipi che molto spesso loro stessi avevano contribuito a creare. Tra questi la figura del gangster (trattata nel saggio La figura del gangster nel cinema e nella letteratura americana di Fred Gardaphé) è, oltre che la più nota, anche quella più adatta a definire cosa abbia significato la presenza dell’immigrato italiano tra i cittadini americani in diversi periodi della modernità, ovviamente attraverso la lente del cinema: nella Hollywood classica (ma qui potremmo tranquillamente dire pre-Padrino) la figura del gangster fu la pietra di paragone ufficialmente negativa, simbolo della cultura straniera e corrotta in opposizione a quella americana. Ma già qui il personaggio del gangster –vero e filmico- si differenziava dai criminali comuni per una sorta di stile che gli permetteva di commettere “i propri delitti con spacconeria, oltrepassando spudoratamente i confini tra bene e male, giusto e sbagliato, ricco e povero (…) gli americani si invaghivano del gangster, un uomo dalle umili origini che ostentava vestiti eleganti e automobili di lusso, sfidando le frontiere che separano le classi sociali”. Dunque un richiamo alla ricerca e all’illusione dell’american way of life, da parte di un personaggio che porta a galla tutti i nei del capitalismo e dell’occidentalismo. Dal Padrino (I e II) in poi, il dubbio su se e dove sia il giusto si fa più esplicito, poiché Coppola dipinge un universo di personaggi dal profilo complesso e tormentato, stretti tra il desiderio di una vita tranquilla e il circolo vizioso della criminalità cui sono indissolubilmente legati e cui è intimamente legata la società tutta. Non a caso, più di ogni altro film è proprio la saga dei Corleone a varare il periodo nuovo di Hollywood, il suo periodo esistenziale, quasi sempre ad opera di autori italoamericani. E’ soprattutto grazie alla loro opera che il cinema d’oltreoceano inizia a mettere in scena il dubbio, il perdente, il personaggio negativo senza più giudicare. Questi cineasti, pregni di una cultura e di un modus vivendi di ascendenza sud-europea, certamente ben definito all’interno delle altre culture americane, sono quasi come narratori esterni e disinteressati, fuori dal mito della purezza americana, ben consci di quanto costi (e sia già costato) percorrere la via consigliata da Roosevelt. Come spiriti dei Natali passati, da questo momento in poi numerosi autori più e meno noti inizieranno a scavare sotto moltissimi aspetti nella coscienza della società americana: ed è da questo incontro col diverso, col criminale, con l’immigrato dal vecchio mondo e dalla vecchia morale che il cinema inizia a plasmare un profilo più completo e cosciente della cultura americana. Da Coppola, a Scorsese, a De Palma, a Cimino –le punte di diamante del periodo, ma non certo gli unici autori di origine italiana- anche quando gli ambienti non sono italoamericani, per i personaggi proposti è tutto un vagare alla ricerca di se stessi dentro una società labirintica, satura di violenza palese e nascosta, fisica e psicologica, nello scontro tra tradizioni e futuro incalzante. E non si pensi a una stabilizzazione di questa sempre nuova filosofia antipurista: per la cultura americana (lo dimostrano le pellicole attualmente più in voga, piene di eroi, diciamo da Star Wars in poi) il dubbio continua ad essere un problema, non un catalizzatore dello sviluppo. Ai fini del nostro discorso può essere interessante riferirci al saggio di Emanuele Pettener John Fante e gli altri: lo strano destino degli scrittori italoamericani dov’è annotata la relativa fortuna degli scrittori italoamericani nella patria di adozione: insinuare il dubbio, lavorare di umorismo come faceva John Fante nei suoi romanzi, non si addice all’America, la quale “..è un Paese romantico, in cui si crede ancora nell’assoluto, nella Verità (…)..è un Paese emozionale attraversato dalla retorica del pathos. La Verità più incorruttibile è il sogno americano, ovvero l’idea che un uomo possa ottenere qualsiasi risultato solo e unicamente con le proprie forze, lavorando: un idea che sfiora il ridicolo per noi italiani”.

Il periodo più recente per il nostro gangster, con cui l’opera in esame non dimentica di fare i conti è quello autoironico. Allontanandosi infatti dalle prime generazioni di immigrati, quelle più italiane, più europee, e dai loro drammi, e diventando sempre più americani (se non per i cognomi e per le abitudini alimentari - avere sangue italiano nelle vene tra l’altro oggi è motivo di vanto-), i cineasti italiani più giovani raccontano le vicende di un ambiente ormai americanizzato a fondo ma pur sempre depositario di punti di vista particolari. Così Quei bravi ragazzi pone l’accento su figure autoriali estremamente attuali, come quella della regista Nancy Savoca (Identità di genere nel cinema italoamericano, di Anna Camaiti Hostert), concentrata proprio sul quel tanto dell’etnicità italiana rimasta negli italoamericani, in grado di condizionarne l’esistenza sotto diversi aspetti; ma anche su fenomeni come I Soprano, la serie televisiva di David Chase che ha spopolato negli Stati Uniti - e non solo- in special modo tra i telespettatori italoamericani. Tony Soprano, è il personaggio di punta, è il ‘boss sotto stress’ che si rivolge alle cure di una psichiatra non perché in crisi col suo ruolo o perché preda dei sensi di colpa, ma perché non più in grado di porsi alla pari dei grandi mafiosi del passato: quelli si, potevano permettersi di avere sensi di colpa e dubbi, in quanto erano veri gangster, grandi figure negative ma mitologiche, ben salde nel loro essere. Il boss Soprano sembra così rappresentare la più recente figura identificativa della società e della cultura italoamericana, ormai completamente integrata nel villaggio globale, con tutte le sue tradizioni svuotate del loro senso: un etnia arrivata nella stanza dei bottoni a prezzo dell’omologazione, che è del resto l’unica scelta utile alla sopravvivenza, e ben poche sono le scappatoie.

Compilato in collaborazione tra critici italiani e italoamericani, Quei bravi ragazzi è frutto di un vero lavoro di critica cinematografica, molto lontano dall’attuale tendenza al trafiletto, al gossip e alle stelline di valutazione. Opera anacronistica dunque, in senso buono, poiché soltanto analizzandolo in relazione a società, cultura, storia e contemporaneità è possibile ricostruire l’importanza del cinema, restituendo tutta la potenzialità espressiva e provocatoria che gli è propria e che lo eleva al di sopra di qualsiasi altro mass media.


Autore: a cura di Giuliana Muscio e Giovanni Spagnoletti
Titolo: Quei bravi ragazzi- Il cinema italoamericano contemporaneo
Editore: Marsilio
Collana: Saggi-Nuovo Cinema
Dati: 256 pagine, formato 13,5x20,5 cm, copertina morbida
Anno: 2007
Prezzo: 18.00 Euro
Web info: Sito Marsilio


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