X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Lo rosa purpurea del Cairo

Pubblicato il 8 aprile 2020 da Francesca Pistocchi


Lo rosa purpurea del Cairo

Continua il viaggio immaginifico di #iorestoacasaecritico. Se la scorsa settimana abbiamo incontrato un mostro capace di uscire dallo schermo e di incarnare le paure più profonde ed epidemiche di un uomo che più contemporaneo non si può, tocca ora a Woody Allen di raccontarci come, dalla superficie dorata del rassicurante cinema hollywoodiano dei roaring twenties (ma quelli del secolo scorso) possa uscire, in modo decisamente meno metaforico, anche qualcosa di più romantico e dolce di un vampiro assestato di sangue e contagio. Ed è la commedia la chiave di volta di un viaggio molto lontano, ma terribilmente vicino che ci porta in New Jersey, ma lasciandoci sul divano di casa. Si dia spazio allora a La rosa purpurea del Cairo, letto e recensito da Francesca Pistocchi come fosse appena uscito al cinema. Anche a cinema chiusi.

“Ho appena incontrato un uomo stupendo. È immaginario, ma non si può avere tutto!” Per Woody Allen, il cinema è rimasto quello degli esordi: un limbo in cui ordinario e straordinario finalmente si sposano, trasgredendo le regole della piatta concretezza che ci circonda. Ben noto l’amore del regista nei confronti degli anni ’20 e ’30, epoca in cui il grande schermo aveva il difficile compito di mettere in scena fantasie inconsuete e consolanti. Ci troviamo infatti nell’America della grande depressione: Cecilia, giovane cameriera in una tavola calda, è prigioniera di una vita monotona e insoddisfacente. Il marito dispotico, la suburbana tristezza del New Jersey, la solitudine e la disillusione come unico strascico dei luccicanti roaring twenties: questa la cornice da cui la ragazza (e non solo lei!) tenta inutilmente di fuggire, rintanandosi ogni giorno in un piccolo cinematografo. Qui proiettano La rosa purpurea del Cairo, un film d’avventura che trasporta lo spettatore fra rovine esotiche e lussuose feste, mettendo in scena una spensieratezza ormai presente soltanto su pellicola. Pare quasi un’amara parodia della vecchia macchina da sogni hollywoodiana: ma questo Cecilia non può saperlo, e rimane estasiata di fronte alle sfavillanti apparizioni che le vengono offerte. Il suo personaggio preferito è Tom Baxter, l’uomo perfetto: affascinante, temerario, sensibile, ironico, romantico… e soprattutto disposto ad uscire dallo schermo per raggiungerla nel mondo reale. Rinunciando temporaneamente alla rassicurante finzione cinematografica, i due fuggono dai propri rispettivi destini. A quel punto scoppia il caos: il pubblico reclama i soldi del biglietto, i Tom Baxter di tutto il mondo balzano fuori dalla quarta parete, mentre gli altri protagonisti vagano avanti e indietro, abbandonando i loro ruoli e avvicinandosi pericolosamente alla quotidianità da cui lo spettatore medio cerca invece di evadere.
Illusione e consuetudine si incrociano con ritmo serrato e vorticoso, si ripensa a Sherlock Jr. di Keaton (annata 1924!), ripreso con grande fedeltà soprattutto nella scena in cui Buster, addormentato dietro alla cinepresa, contemporaneamente attraversa la sala per entrare nelle sue stesse fantasie. Qui il suo doppio è libero di realizzare quei desideri puerili che nella vita vengono puntualmente delusi, l’impossibile diventa ordinario e l’ordinario diventa impossibile. Il cinema è tutto un divenire, l’imprevisto attende dietro l’angolo: e adesso che cosa succederà? Come farà il piccolo Buster a sgominare un’intera banda di criminali? Dove andranno Tom e Cecilia?
Woody Allen è della stessa scuola e fa svolgere alle proprie creature il percorso diametralmente opposto, trasformando il suo New Jersey in un universo meraviglioso anche se, in gran parte, già in rovina. Ricorrenti sono gli scontri fra la protagonista e il marito violento e alcolizzato, vittima della disoccupazione imperante. Ricorrente la ruota arrugginita di un Luna Park fantasma sotto la quale i due innamorati si danno appuntamento. Lo sguardo di Allen non è quello di Keaton, perché nasce più di sessant’anni dopo e porta in sé una consapevolezza storica che gli permette, infine, di ristabilire un ordine disincantato.
E difatti, a rovinare la piacevole anarchia finora creatasi, entra in scena Gil Shepherd, l’attore che ha generato Tom e la cui unica preoccupazione sembra essere quella di salvarsi la faccia riportando la propria copia fittizia al di là dello schermo. Gil è decisamente reale: immaturo, narcisista, superficiale, tutto sommato fa tenerezza. Non abbiamo dubbi su quale dei due uomini Cecilia sceglierà: trascorsa l’ultima, incantevole notte con Tom fra i primi piani e le dissolvenze de La rosa purpurea, la giovane ritornerà alla sua vita con la speranza di poterla cambiare partendo con Gil per Hollywood. Quest’ultimo, tuttavia, prenderà il primo volo senza nemmeno salutarla. Alla ragazza non rimane che sorridere malinconicamente davanti a Fred Astaire e Ginger Rogers. In fondo, come direbbe Keaton, Cecilia ha fatto la scelta giusta: il cinema non è fatto per essere vissuto, ma per essere sognato.


Enregistrer au format PDF