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Matteo Garrone: il peso e l’altezza

Pubblicato il 17 maggio 2008 da Gaetano Maiorino


Matteo Garrone: il peso e l'altezza

Quattro film in dodici anni possono sembrare pochi se si è abituati al ritmo di un certo cinema italiano che macina storie l’una dopo l’altra, che non bada alla forma e alla maniera, che punta deciso all’obiettivo, al target, come se invece che di un testo complesso, ogni film sia un prodotto da piazzare. Non che il concetto moderno di cinema debba prescindere dalle logiche di marketing: la promozione, la confezione, l’appetibilità, sono dei requisiti che al giorno d’oggi non si possono tralasciare. Ma dall’altro lato della medaglia non bisogna dimenticare l’arte. Matteo Garrone con l’esigua quantità di film a cui si accennava in apertura, si pone esattamente al centro dell’altra faccia della moneta, nel dominio dell’arte, lontano dalla componente entertainement, differente dalla più commercialmente apprezzata schiera di pellicole italiane degli ultimi anni. Quattro lungometraggi (Estate Romana 1998, L’imbalsamatore 2002, Primo Amore 2004, Gomorra, 2008) più un altro film composto da tre corti di circa venticinque minuti l’uno (Terra di mezzo, 1996), dal 1996 al 2008 compongono la filmografia di uno degli autori più talentuosi del nuovo cinema italiano, quello sia chiaro, che, guidato proprio da Garrone in tandem con Paolo Sorrentino, comprende tra le sue fila anche Emanuele Crialese, Salvatore Mereu, Anna Negri, Salvatore Marra, Stefano Munzi, e molti esordienti in attesa di conferma dalla loro opera seconda, capitanati da Giorgio Diritti. Registi che sono testimonianze viventi, di come la settima arte trovi ancora linfa vitale nel nostro paese, nutra l’immaginario, non si riduca a rappresentare semplici riciclati stereotipi, ma riesca ad andare oltre, ad essere approfondimento psicologico, cassa di risonanza di realtà scomode, opera d’arte secondo le più varie accezioni.

Matteo Garrone si inserisce e conduce questo risveglio della nostra cinematografia viaggiando su una doppia direttrice comune soprattutto ai suoi due film più noti al pubblico per la quantità di premi e menzioni che entrambi hanno ricevuto, L’imbalsamatore e Primo Amore. Gli assi cartesiani di questi due film sono due caratteristiche fisiche, corporee, il peso e l’altezza. Due fattori facilmente individuabili a prima vista, ma che possono nascondere altre simbologie; due perni attorno ai quali si costruiscono i due film che hanno portato definitivamente all’attenzione della critica internazionale questo director romano che costruisce atmosfere e personaggi scuri, ambigui, terribili. Dalle ombre nere di un magazzino nella periferia di un paese del napoletano, emerge il primo di questi personaggi, Peppino, imbalsamatore, poco più alto di un metro, un folletto malefico, che in riporta in vita animali defunti, ma che corrompe trasformando in morte tutto ciò che di altro tocca. Peppino trova il suo rovescio in Valerio, alto quasi due metri, statuario, sorriso gentile e faccia onesta, accomunato a Peppino dalla passione per gli animali. L’attrazione tra i due opposti è inevitabile e perversa, affondata nella melma della corruzione e nella lussuria. Macchina da presa a mano per metà film posizionata all’altezza di Peppino e quindi al livello delle anche di Valerio di cui spesso si sente solo la voce, fotografia che vira sul nero e su un tono di giallo scuro e inquietante, sono segnali di un rapporto che ha qualcosa di insano. Man mano infatti l’altezza del gigante buono simbolicamente si riduce fino a che nelle ultime sequenze i valori si rovesciano. Il folletto demoniaco esprime dal suo piccolo corpo la sincerità dei sentimenti più alti, mentre il giovane adone si abbassa fino all’omicidio. L’ossessione per il peso è invece l’idea fissa che tormenta Vittorio, orafo protagonista di Primo Amore. Solitario e depresso abitante della provincia veneta, il personaggio perfettamente delineato da Vitaliano Trevisan, è alla costante ricerca della perfezione. È una ricerca di verità, che marcia per sottrazione, per eliminazione di libbre dai manufatti preziosi che egli crea nel suo laboratorio, spargendo polvere d’oro tutto intorno. È una ricerca che si ripropone con maniacale controllo nel rapporto con Sonia, si ripercuote sul corpo della donna che diminuisce di peso con una rapidità che impressiona. Garrone indugia sul corpo della donna con dettagli che si concentrano sulle ossa sporgenti della ragazza che via via sono sempre più evidenti. Una magrezza sconcertante: “cerco sempre prima il corpo e poi la testa”, afferma Vittorio in una delle scene iniziali, con Sonia c’è prima la testa e poi comincia il lavoro sul corpo. Convinto che meno peso sia più splendore, Vittorio la spoglia del grasso, alla ricerca di una lucentezza, che deriverebbe da una maggiore evidenza della struttura. In realtà l’ossessione non conduce alla perfezione, ma alla distruzione del corpo stesso e della mente, alla ribellione, alla perdita della ragazza. Il lavoro di cesello che ha compiuto per mesi, come a plasmare un gioiello con i suoi strumenti, stavolta intorno non sparge polvere d’oro.

Noir atipici, aderenti al genere per atmosfera ma fuori da esso per caratteristiche narrative, queste due storie narrate da Garrone fanno seguito ai corti di Terra di mezzo, ritratti di prostitute e senza tetto, clandestini che viaggiano nelle periferie e nei sobborghi, altri corpi gettati in strada e venduti per poche lire, maltrattati in maniera molto meno simbolica che nei due film fin qui analizzati. Nell’attesa del riscontro che dal festival di Cannes e dalle sale italiane, arriverà sulla sua ultima opera, Gomorra, legata a doppio filo con il successo del libro da cui è tratto, romanzo-cronaca di una realtà spaventosa, possiamo confermare la tendenza di questo regista ad affondare le unghie in narrazioni ai margini, sia geografici (la provincia ignota del veneto e del napoletano) che simbolici: favole nere, orrende, impossibili, affascinanti.

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Gomorra


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