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Michael Mann: l’autore

Pubblicato il 29 novembre 2004 da Andrea di Mario


Michael Mann: l'autore

Saremo pure inguaribilmente cinefili a Close-Up (o più genericamente dei classicisti, ammesso che tale definizione valga ancora), se puntualmente insistiamo nel proporre così ostinatamente i film di Michael Mann come i migliori di questi ultimi anni. Ci stupisce anzi il fatto di come tale attribuzione del regista losangelino trovi riscontro solo con sufficiente e parziale accettazione da gran parte della critica, anche quella più impegnata ed edotta. Basti citare il caso - ironico naturalmente - delle controrecensioni di Moretti in Aprile. Heat. La sfida del nostro malcapitato, veniva tacciato di posticcio gusto western (romanescamente dicasi bufalata). Molto più indicativo il commento di Lietta Tornabuoni su “L’Esspresso”, che in occasione dell’uscita di Collateral, licenziava Mann come “autore d’un cinema robusto e pieno d’energia ma non particolarmente raffinato e bello”. A parte questo legittimo e pur autorevole giudizio e la sua occasione, si riscontra la fatica, presso lo spettatore comune, di comprendere le segrete (ma visibilissime!) trame nel cinema di Mann, mentre da parte dello spettatore più coinvolto, far uscire i suoi film dall’ottica di genere. Invece noi troviamo in essi una straordinaria carica di passione umana; di retorica dello sguardo condotta con aristocrazia; di squisita - letteratissima - nozione di realismo che deflagra nello sminuzzamento della realtà stessa attraverso procedimenti estatici come si vede solo raramente. Ai “contenutisti” vorremmo spiegare che Mann, dentro i suoi film, riesce a utilizzare contemporaneamente il “cannocchiale” e il microscopio. Con il primo inquadra la città (Los Angeles), la storia (L’ultimo dei Moichani, Alì), la contemporaneità (Insider. Dietro la verità), l’abisso (Manhunter. Frammenti di un omicidio). Con il microscopio entra in questi mondi amplificandone ogni indizio visivo riverberandolo (che c’è in sala oggi di tanto espanso?) come un cacciatore di farfalle, senza minima traccia di retorica o di decupage. Il risultato è che il piccolo diventa grande e grande il piccolo. Di questo procedimento Collateral è una delle sue creature più perfezionate. Il filo orizzontalissimo di questo film impedisce di guardarne il punto di fuga a chi vorrebbe vederne delle evoluzioni morali, dirette accuse o consolanti risvolti sull’ingiustizia o sul potere del sistema americano. Mann è Autore, che lo si occulti o meno dietro i cartelloni delle major. È autore perché, benché esca dalla definizione più coerente, è uno dei pochi a contenere quegli elementi che ci rimandano ai rinnovatori del cinema. Come non si fa a vedere negli algidi notturni, nei sontuosi build vuoti, la stessa solitudine che si trova nei film di Antonioni, la stessa lucida mano ferma? Pur con le dovute differenze, l’avventura di Cruise e Foxx riscuote la stessa approvazione da parte nel nuovo spettatore di quella provata dallo spettatore che seguiva le traiettorie fuori campo della decappottabile con a bordo Fabio Ferzetti e la Vitti (già 44 anni fa, oddio!!). Di chi ha visto il lucido cinismo di quest’ultimo, nel versare con dispetto la china sul disegno degli studenti, similmente seguiamo il preambolo di Cruise all’impallinamento del jazzista. Ai “calligrafisti” vorremmo invece far notare come l’immagine intera di Collateral sia quella di un anfibio della visione, per il suo essere gran parte girato in digitale. Mann ci ha mostrato una via al mal di mare docudogmatico delle telecamerine: la necessità. Insomma, ribadiamo ancora una volta che i film di Mann sono fatti di vetro, attraverso il quale si possono vedere le esplosioni del sole.

[novembre 2004]


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